I quattro quinti allo sbaraglio di Luciano Gallino

I quattro quinti allo sbaraglio I quattro quinti allo sbaraglio Così la società rischia di andare in pezzi s Il saggio di Luciano Gallino Se tre milioni vi sembrati pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione verrà mandato in libreria da Einaudi il 25 settembre. Pubblichiamo in anteprima uno stralcio dell'introduzione. E tre milioni di senza lavoro vi sembrali pochi, rispetto a poco più di venti milioni di occupati, e mi milione e trecentomila posti di lavoro scomparsi in tre anni (199294) e mai ricomparsi non vi pare motivo di preoccupazione, provate a immaginare che cosa sarebbe la società italiana quando dovessero scomparire un altro paio di milioni di posti, e le persone in cerca di lavoro diventassero due o tre volte tante. Non sono cifre abbozzate a effetto per il copione d'un film dell'orrore economico. Sono grandezze che derivano dal riferire al nostro Paese le previsioni sul futuro prossimo del lavoro - diciamo a otto-dieci anni - formulate a livello mondiale non solo da economisti o sociologi controcorrente, sempre accusabili di catastrofismo; ma pure da fonti autorevoli, come grandi società di consulenza, dirigenti delle maggiori corporations transnazionali, serissimi studiosi di scienza del futuro. (...). I dati statistici dicono che nei Paesi industriali la quota degli addetti all'agricoltura si aggira al presente, punto più punto meno, sul tre per cento delle forze di lavoro occupate. Ad esempio, l'enorme quantità di prodotti alimentari che gli Stati Uniti gettano ogni anno sul mercato nazionale e mondiale proviene dal lavoro d'appena il 2,5 per cento della loro popolazione attiva (al 1997), corrispondente a meno di tre milioni di persone. La Gran Bretagna fa registrare addirittura un punto in meno, la Francia e la Germania un punto e mezzo in più. L'Italia è ancora al 6,5 per cento, ma sta scendendo rapidamente verso il livello francotedesco. Negli stessi Paesi il nucleo portante del settore produttivo da cui traggono la loro qualifica di industriali, l'industria manifatturiera, sta riducendo rapidamente e strutturalmente la propria quota di addetti. Essa occupa ormai, con la temporanea eccezione della Germania, meno del 20 per cento della popolazione attiva, e sta perdendo dovunque tra lo 0,5 e 1 punto percentuale l'anno di addetti. La sua quota sul prodotto interno lordo è stabile o è anzi in aumento, ma la rivoluzione tecnologica e organizzativa permette di produrre un volume sempre maggiore di merci con un numero sempre minore di lavoratori. Negli Stati Uniti, il cui presente anticipa in questo campo il nostro futuro, la quota degli addetti alla manifattura è ormai al di sotto del 15 per cento. Intorno al 2005 o poco oltre l'industria manifatturiera nella maggior parte di questi Paesi non occuperà più del 10 per cento del totale della popolazione attiva, ferma restando la tendenza ad un'ulteriore discesa. Una tendenza analoga è già chiaramente evidente nei Paesi emergenti. Rimane l'industria delle costruzioni. Poiché in essa la produttività è assai più bassa, né promette sostanziosi aumenti nel vicino futuro, mentre l'intensità di lavoro è più elevata, è possibile che nei prossimi 10-15 anni la quota di occupati che essa registra al presente nei Paesi industriali - 5-7 per cento - non diminuisca di molto. Ecco allora il futuro prevedibile L'attività lè il filo pinel legameche tieneindividui e avorativa robusto invisibile insieme comunità - abbastanza prossimo per i Paesi industriali, un po' più lontano per i Paesi emergenti - delle forze di lavoro su scala planetaria: 2-3 per cento di addetti all'agricoltura; 10-15 per cento di addetti all'industria manifatturiera; 5-7 per cento nelle costruzioni. E il restante 75-83 per cento delle forze di lavoro, lavoreranno forse tutte nei servizi? Nemmeno da pensarlo. Infatti la maggior parte dei servizi, resi tanto alle aziende che alle persone, appaiono suscettibili di venir meccanizzati o automatizzati, allo stesso modo della produzione di beni agricoli o industriali, e prima o poi anche quelli che ancora non lo sono conosceranno questa sorte. Non dovrebbe perciò suonar sorprendente che un alto dirigente d'una megasocietà di consulenza, la McKinsey, abbia preconizzato qualche tempo fa che l'industria, per quanto riguarda la quota di addetti, prenderà la strada dell'agricoltura verso pochi punti percentuali di occupati; o che da un «trust dei cervelli globale» politici, magnati dell'economia e studiosi, tutti di notorietà planetaria - riunito a San Francisco sia sortito già nell'autunno 1995 l'annuncio che «nel prossimo secolo il 20 per cento della popolazione in grado di lavorare basterà per tenere in moto l'intera economia mondiale». Gli altri quattro quinti dovranno sbrogliarsela. (...). Una politica per l'occupazione che si volesse frontalmente opporre non diciamo all'avvento, ma anche solo al rischio orrorifico della società dei quattro quinti, la quale perciò volesse ostinatamente negare nella realtà, tutt'insieme, profezie, previsioni, scenari futuribili e megatrends, dovrebbe quindi puntare nel medesimo tempo a creare lavoro, ed a costruire lavori che pure agli occhi di chi sa che lavorare stanca valga la pena di fare, perché attraverso di essi si è cittadini a pieno titolo. Guai a pensare che l'occupazione sia un mero fatto economico. Un lavoro, il lavoro, non è soltanto un mezzo di sussistenza. Ad onta di quanto si scrive sul deperimento della forma lavoro, invenzione transitoria della rivoluzione industriale - e bisogna avere un angolo visivo alquanto ristretto per scriverlo, all'epoca in cui almeno un altro miliardo di uomini sta correndo a vestire i panni del salariato capitalistico - il lavoro rimane, ed è destinato a rimanere per generazioni, un fattore primario di integrazione sociale. E' il filo più robusto tra quelli che compongono il legame invisibile ma vitale che tiene insieme individui, comunità e società. Situa in un fecondo rapporto dialettico l'individuo con se stesso e con il mondo. Purché il lavoro abbia certe caratteristiche: come l'esser ragionevolmente stabile, dignitosamente retribuito, discretamente interessante, e svolto in condizioni compatibili con i diritti della persona alla salute, alla sicurezza e al rispetto. Oltre alla disoccupazione, anche la precarietà come modello di lavoro e la malaoccupazione, ivi incluso il sommerso, sono la negazione di tali caratteristiche. Per questo motivo l'una e l'altra sono minacce gravi per l'integrazione sociale. Preoccuparsi della disoccupazione significa quindi, per usare una battuta cara ai sociologi, farsi intellettualmente e praticamente carico di ciò che tiene insieme la società, in un momento storico che ha già visto tante di esse andare in pezzi. Luciano Gallino L'attività lavorativa è il filo più robusto nel legame invisibile che tiene insieme individui e comunità

Persone citate: Einaudi, Luciano Gallino

Luoghi citati: Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, San Francisco, Stati Uniti