PENSARE CON METODO DA KANT A ADORNO

PENSARE CON METODO DA KANT A ADORNO PENSARE CON METODO DA KANT A ADORNO Come si deve leggere un testo filosofico LA LETTURA DEL TESTO FILOSOFICO Reinhard Brandt traduzione di Piero Giordanetti Laterza pp. XXXV/-2/7 L. 35.000 A lettura di testi è una parte fondamentale dell'attività filosofica; nessun autore, per quanto originale, può esimersi dal confrontare il proprio pensiero con quello di classici e contemporanei. Siccome la filosofia si interroga costantemente su se stessa, non c'è quindi da stupirsi se «che cosa vuol dire leggere un testo» è un problema filosofico ricorrente e controverso. A questo problema è dedicato La lettura del testo filosofico di Reinhard Brandt, professore a Marburgo ed esegeta (fra l'altro) di Kant. Due sono i pericoli da cui Brandt intende metterci in guardia. Uno è appena menzionato, perché non rappresenta un approccio credibile: «La ripetizione meramente tautologica» del contenuto di un'opera. L'altro invece è il principale obiettivo polemico del libro: il pluralismo arbitrario delle interpretazioni, l'idea (basata sul «circolo ermeneutico» di Heidegger e Gadamer) che ognuno trovi in un testo quel che andava cercando, che vi legga i propri pregiudizi, per cui tanto vale favorire, tra le varie letture comunque arbitrarie, quelle che risultano più illuminanti e suggestive. Brandt è chiaramente indignato nei confronti di questa tendenza interpretativa e la attacca a tutto campo, talvolta insistendo che gli ermeneuti si scontrano con fatti lampanti (è innegabile che ci si trovi spesso d'accordo su quel che vuol dire un testo, afferma, e che l'accordo abbia il suo fondamento nel testo stesso) e finiscono addirittura per contraddirsi (anche del circolo ermeneutico è possibile dare interpretazioni oggettivamente giuste o sbagliate, quindi neanche qui è vero che anythings goes), talvolta criticandoli su basi moralistiche («gli autori dei quali ci si serve vengono privati del diritto di esporre una loro teoria e sono ridotti al silenzio»), Ma Brandt ha letto troppo Kant per essere un realista ingenuo: sa benissimo che «non esiste un testo del tutto incontaminato dall'attività dell'interprete». L'oggettività, dunque, non può essere il frutto di una ricezione passiva; all'arbitrio dell'interprete non può opporsi un contatto diretto con il significato dell'opera. Quel che gli si oppone, invece, è il metodo: «Oggettiva è quell'asserzione testuale che affiora in un'analisi metodica del testo». Al capriccio interpretativo fanno resistenza non presunti dati immediati, ma le regole fedelmente seguite dall'interprete. Quando enuncia i suoi principi metodologici, Brandt non va al di là dei più triti luoghi comuni: «Si faccia attenzione al ruolo dell'autore, all'unitarietà dello scritto, alla struttura formale del testo, alle relazioni esterne delle idee che vi vengono sviluppate, alla totalità fondante della teoria». Ma per fortuna queste indicazioni di massima occupano poco spazio nel suo testo, che invece si dilunga in modo assai proficuo su esempi concreti. Ed è affascinante seguirlo quando mette in luce la regolarità della divisione in un numero ridotto di parti (da tre a sei) in opere e autori fra loro diversissimi e la spiega facendo riferimento a quanti oggetti si possono cogliere con un unico atto percettivo, o quando inverte l'ordine delle frasi in uno scritto di Adorno per mostrare che non ne soffre il senso dell'insieme (come si conviene a un autore che «pensa in frammenti, perché frammentaria è la stessa realtà»), oppure ancora quando ritrova in Locke e Fichte, in Bacone e Marx l'identico topos della critica al logicismo. In tutti questi casi la sua cura rigorosa per i dettagli strutturali e formali del testo genera risultati inaspettati, che forse gli autori non avrebbero gradito ma che arricchiscono in noi lettori la comprensione delle loro opere. E' un'esagerazione affermare che la metodologia di Brandt produca automaticamente l'oggettività, perlomeno se con questo si vuole escludere che un'attenzione altrettanto rigorosa e paziente ad altri aspetti del testo possa rivelarne significati altrettanto plausibili, e magari in contrasto con quelli scoperti da lui. Che la realtà sia figlia del metodo, insomma, è compatibile con il fatto che realtà diverse (e tutte oggettive, cioè convincenti) siano figlie di metodi diversi (e tutti rispettabili). Ma possiamo perdonare a Brandt questo eccesso di retorica, purché i suoi risultati concreti continuino a stimolarci. Gli suggeriremmo solo di non prendersela tanto con Heidegger e Gadamer, perché le sue differenze con questi ultimi non sono poi così enormi. Sono enormi invece le differenze con i loro nipotini, con quanti cioè hanno fatto del circolo ermeneutico un passaporto per le più atroci banalità. Con quanti non sono né oggettivi né soggettivi, ma (in quanto pigri e faciloni, e privi di qualsiasi metodo che non si riduca alla «ripetizione meramente tautologica» di poche parole d'ordine) sono soltanto noiosi, Ermanno Bencivenga LA LETTURA DEL TESTO FILOSOFICO Reinhard Brandt traduzione di Piero Giordanetti Laterza pp. XXXV/-2/7 L. 35.000