Un detective a Bogotà

Un detective a Bogotà Un detective a Bogotà S'infilò un vecchio paio di pantaloni di fustagno, si accomiatò con un cenno dal manichino di domia che il sole baciava sulla fronte, così bella sul suo piedistallo di fianco alla biblioteca, e un attimo dopo stava già scendendo per l'avenida Chile in direzione dell'autostrada. «Silanpa. Stampa», mostrò il tesserino. «Vada piare, è là». Da lontano gli sembrò un Cristo obeso. Un elefante pallido disegnato da un bambino. «Si inetta questo sul naso». L'agente gli porse un batuffolo di cotone con dell'ammoniaca. «Laggiù c'è una puzza che non si resiste». Si premette il cotone sulla bocca; con gli ocelli che lacrimavano prese a scavalcare cespugli e giunchi fino a raggiungere il posto. Il corpo era violaceo, gonfio e sporco di fango secco. I pah lo attraversavano come una croce. I muscoli di Silanpa si contrassero istintivamente e avvertì una fitta dolorosa. Fece uno schizzo sul taccuino, disegnò la posizione del cadavere a qualche metro dalla riva, in mezzo al canneto, e poi cominciò l'ingrato compito dei rilievi sul corpo. Presentava segni sui polsi e sul collo. Lo avevano legato e sicuramente trascinato. L'agente gli passò una scala da imbianchino e, trattenendo il ribrezzo, si avvicinò al viso. Le orbite degli occhi erano vuote e la bocca socchiusa, piena di terra e sabbia. Poi prese la sua piccola Nikkormat e scattò varie foto. «Sembrerebbe morto affogato, prima che lo impalassero, vero, agente?» «Sissignore. E lo guardi dietro. Quelle che gli escono dal sedere non sono alghe?» «Sì, così pare...» Silanpa scese dalla scala. «Bene, adesso tocca a voi. Dite a Piedrahita che ci vediamo domattina presto». Rifece il percorso in salita fino alla strada e guardò il lago dal ponte. Da lì si erano buttati tanti disperati, persone che avevano sognato una telefonata, il gesto di qualcuno o qualcosa che non era mai arrivato. Sentì freddo. Una brezza umida increspava l'acqua formando linee parallele. Chiamò il capitano dalla radio della volante. «Qui è Aristófanes Moya», sentì rispondere all'altro capo della linea, «capitano della 40a Brigata, dica pure». Silanpa si qualificò. La sigaretta gli tremava tra le dita. «E' un affogato», disse. «L'hanno tirato fuori dal lago artificiale per poi crocifiggerlo. Strano, no?» «Ha trovato qualche indizio?». «Gli agenti hanno battuto la zona in un raggio di duecento metri e non hanno notato niente. Neanche un rametto spezzato». Il capitano si schiarì la voce. «Bene, leggerò l'articolo. Ha foto mie recenti?». «Certo, capitano». Poi chiamò la redazione dell'«Observador». «Esquivel? Qui è Silanpa, urgente. Ho bisogno di un richiamo in prima per la foto a colori e una pagina intera nella cronaca nera». «E non vuoi anche che ti canti Smoke in your eyesl». «E' una faccenda molto grossa, Esquivel, credimi, un tizio impalato sulla riva del Sisga. Tra un po' arrivo e ti spiego». Rientrò a Bogotà fumando una sigaretta dietro l'altra, ipnotizzato dall'immagine del cadavere, quelle orbite sfondate e la smorfia sul viso. Provò orrore pensando che, fino a poco prima, era un uomo come lui, una persona che gli altri ascoltavano, a cui stringevano la mano e che forse amavano. L'ultimo tiro alla sigaretta gli riempì la bocca di un sapore aspro e abbassò il fine- strino per sputare. Brutta cosa stare troppo vicino ai morti. Arrivando al terzo ponte guardò l'orologio, erano quasi le cinque; «Monica sarà furiosa», si disse. Accelerò fino all'avenida 127 e poi scese verso Niza rimproverandosi di essere come era: perduto nel tempo, incapace di rispettare un appuntamento, come se le coordinate dell'orologio fossero un linguaggio estraneo alla sua vita. Le aveva promesso di accompagnarla a correre, ma ormai era troppo tardi. Monica gli aprì la porta con il muso lungo e poi andò in cucina a versarsi un caffè. Indossava la tuta da ginnastica. «Dove accidenti sei finito? Ti ho chiamato a casa tua. Al giornale mi hanno detto che non ti avevano visto». «Sono dovuto andare al Sisga. Hanno rinvenuto un cadavere impalato sulla riva. Una faccenda orribile». «Impalato?». Lo guardò sorpresa e intanto soffiava sulla tazza. «E che storia è: paramilitari, narcotraffico, guerriglia?». «Lo sai che non mi immischio in certe cose». Si versò un bicchiere di latte. «Per il momento si tratta di semplice omicidio...» [...] Chi poteva essere quel cadavere anonimo? Come era arrivato in quel posto? Immaginò le mani che lo avevano impalato e lasciato lì, esposto al vento e alla pioggia. Mani dure, abituate alla morte. [...] Arrivò al giornale che stava facendo buio e andò a consegnare il rullino in laboratorio. «Guarda». Silanpa indicò il negativo, mentre Esquivel abbassò gli occhiali sulla punta del naso. «Questa è roba che scotta». Le foto vennero mandate in stampa e Silanpa si sedette davanti al vecchio computer nel suo ufficio. Accese una sigaretta e cominciò a picchiettare con due dita sulla tastiera. Santiago Gamboa Santiago Gamboa

Persone citate: Esquivel, Santiago Gamboa, Smoke

Luoghi citati: Bogotà