Quelle manette su una verità di Giovanni Bianconi

Quelle manette su una verità Quelle manette su una verità Così dopo quattordici mesi ha cambiato versione ROMA ON s'è ammazzata, Gabriella Alletto. Ha solo cambiato versione. Quattordici mesi fa - il 14 giugno 1997, tre giorni dopo il drammatico faccia a faccia coi magistrati (video-registrato ma verbalizzato solo in minima parte: perché?) - ha accusato Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro di aver ucciso Marta Russo. Poi ha risposto alle domande dei difensori nell'incidente probatorio, e pensava di aver chiuso lì la sua partita con il processo per il delitto della Sapienza. Ma la Corte d'assise ha fatto quell'accorato e inusuale appello agli imputati-testimoni, «parlate per favore, perché noi cerchiamo la verità», e Gabriella Alletto, segretaria dell'istituto di filosofia del Diritto all'università di Roma, s'è ripresentata in aula ripetendo le sue accuse. Ma qual è la verità? Quella ostentata nella deposizione di ieri, o quella raccontata tra le lacrime quattordici mesi fa? Il dubbio - viste quelle tre ore e mezzo di registrazione e vista la testimonianza resa in aula - non s'è sciolto. Rispondendo alle domande dei pubblici ministeri e degli avvocati di parte civile la donna appare sicura del fatto suo, anche se certe ricostruzioni avrebbero bisogno di maggiori approfondimen- ti: perché quando ha visto Scattone con la pistola in mano non ha fiatato? E perché, parlando con una sua collega qualche giorno dopo, ha fatto il nome di Ferraro e non di Scattone? Le domande potrebbero essere ancora molte, e probabilmente gliele porranno i difensori degli imputati nel contro-esame di oggi: vedremo se e come la Alletto risponderà. Per adesso resta il mistero e restano quelle tre video-cassette con il dialogo (non un vero e proprio interrogatorio) dell'11 giugno '97, quando la donna negava di aver messo piede nella sala assistenti - la numero 6 - il 9 maggio 1997. Tre nastri realizzati a cura della Procura e della Questura di Roma con la collaborazione del Sisde, messi da parte e venuti alla luce solo perché un altro nastro, quello dell'audio-registrazione, secondo un perito tecnico incaricato dalla Corte presentava sospette manomissioni. Si tratta del colloquio avvenuto nell'ufficio del pubblico ministero romano Carlo Lasperanza tra lo stesso pm, il procuratore ag- giunto Italo Ormanni, Gabriella Alletto e suo cognato Luigi Di Mauro, ispettore di polizia. Lì c'è la prova delle intimidazioni che hanno costretto la donna a dire ciò che voleva la Procura, accusano i difensori; no, lì c'è la dimostrazione che la teste subiva ben altre pressioni per non dire la verità, ribattono i pubblici ministeri. Dopo oltre un'ora di tira e molla, con la donna che ripete di non essere stata nella sala 6 dove Maria Chiara Lipari sostiene di averla vista, il pm Lasperanza dice: «Lei è la classica persona che è stata messa in mezzo, diamoci una mano a vicenda...». Allotto: «Ma io non c'ero, che ne so?». Lasperanza: «Purtroppo, anche se dobbiamo credere che la signora non c'era, tutto è contro di lei...». Alletto: «Ma io stavo nella sala 41». Dopo un po' interviene il procuratore Ormanni: «Ci sono quattro testimoni... Lei sa bene che non stava né in sala fax né in segreteria, quindi lei stava in sala assistenti, chiaro? E se stava in sala assistenti, non ci sono altre possibilità: lei è colpevole di omicidio... o di favoreggiamento personale. Per omicidio lei va certamente in carcere e non esce più». Alletto: «Ma se io non ci stavo, che ci posso fare?». Il tintinnar di manette non può essere più esplicito, davanti alla donna che comincia a piangere e a disperarsi. Lasperanza fa la parte del «buono»: «Questi la volevano già arrestare... io l'aiuterò contro il volere di chiunque...»; Ormanni quella del «cattivo»: «Se lei si ostina a non dire la verità significa che l'omicidio l'ha fatto lei, e si prende 24 anni di prigione». Gabriella ormai singhiozza: «Non sono stata io». Ormanni: «E allora chi è stato?». Alletto: «Non lo so... mi prenderanno per scema, per fissata...». Ormanni affonda il coltello: «No, la prende¬ remo por omicidio». Si va avanti cosi per un'ora buona, con Lasperanza che :; un tratto dice: «Signora, riusciamo a trovare mia verità che ci incastri... questi che stavano qui dentro, e allora noi ci possiamo dimenticare di questa storia... cioè, mi posso anche dimenticale perché dico "vabbè, a me che me ne frega se c'erano o non c'erano, tanto vale... ecco, ho trovato la pistola, ho trovato questo che m'ha confessato, a me dell'Alletto non me ne importa assolutamente più nulla, c'era nun c'era..."». Di tanto in tanto interviene il cognato poliziotto: «Gabrio, lottitene di tutti, pensa solo ai tuoi figli». Ma lei, Gabriella, non recede. Tra tante pause di lacrime e silenzio ripete: «Non so che devo fà, ve lo giuro sui miei ragazzini, io non ci stavo là dentro, come ve lo devo dire?». Che significa quel «non so che devo fare»? A tratti l'Alletto sembra stretta tra due «pressioni», quella dei pm che hanno intuito la bugia e spingono verso la verità, e quella di qualcun altro che le ha imposto di negare la sua presenza nella sala assistenti; in altri momenti il pianto e la dichiarata estraneità della donna appaiono sinceri. Qualche politico ha già chiamato in causa il ministro della Giustizia, contro i metodi intimidatori della Procura di Roma. Ma in un processo per omicidio non sempre si può andare coi guanti bianchi. Le pressioni, intimazioni, forzature o come altro le si voglia chiamare non possono stupire più di tanto gli «addetti ai lavori», a cominciare dagli avvocati; e di dialoghi simili a quello tra Gabriella Alletto e i pm romani sono probabilmente piene le inchieste, non solo quelle per omicidio. Stavolta però c'è la prova audio-video di quanto è avvenuto nel chiuso di ima Procura, fuori verbale, in un colloquio destinato a rimanere segreto e venuto alla luce solo per circostanze fortuite. Perché, se come dicono non c'era nulla da temere, gli inquirenti non hanno messo subito tutte le carte sul tavolo, compresa la video-registrazione? Forse perché non è un bel vedere, così come non lo è il magistrato inquirente che di fronte a una testimone che si trasforma in indagata, anziché bloccare tutto e chiamare un avvocato, la guarda fisso e incalza: «Oggi è la sua ultima possibilità». Tre giorni dopo Gabriella Alletto è diventata la principale testimone d'accusa, ma la domanda è ancora senza risposta: qual è la verità? Giovanni Bianconi Nella videocassetta della Procura la donna sembra stretta fra due pressioni Un'immagine del video con la testimonianza resa 14 mesi fa dalla Alletto. In quella circostanza negò d'aver assistito al delitto

Luoghi citati: Lipari, Roma