Le sue pazze parole d'amore

Le sue pazze parole d'amore DA PROUST ALL'ELETTRONICA Le sue pazze parole d'amore Disse basta al vecchio repertorio OUEL che Lucio Battisti a un certo punto non ha più voluto fare è quel che ha detto lui stesso al cantante dei Dik Dik, il suo amico Petruccio Montalbetti: «Io non voglio più dare emozioni a nessuno. Le emozioni non valgono niente». «E stringere le mani per fermare qualcosa che / è dentro me / ma nella mente tua non c'è». Così dice il protagonista delle canzoni di Battisti e Mogol, alle prese con le sue «emozioni», che consistono nel guidare come un pazzo a fari spenti nella notte, uscire nella brughiera di mattina, parlar del più e del meno con un pescatore, ricoprir di terra una piantina verde. Un elenco di verbi all'infinito, un catalogo di atti quotidiani oppure stravaganti, come gli altri verbi all'infinito che riscattano con un amoroso «perché no» la banalità della vita di coppia: «spin- gere un carrello; far la coda; prepararsi alla partenza; fermarsi in trattoria...». Ma qui c'è anche la canzonetta che fa omaggio a Marcel Proust (e così ricambia il famoso elogio che Proust fece della «musica cattiva», deposito collettivo di emozioni personali) e c'è il gioco dell'identificazione minimalista che ancor oggi la cultura di massa insegue (basta pensare al successo del libro - non epocale - sul «Primo sorso di birra» e su altri minutissimi piaceri). Una sorta di tran tran in cui irrompono raptus di improvvisa pazzia d'amore o eccentricità maliziose: «Quando per punire il morali¬ sta dell'ultimo piano / tu all'improvviso gli mostrasti il seno». Un po' di ermetismi, un po' di ambiguità, parole predilette: «mente», «uomo», «vento», «volare», e «morire» (sempre o quasi in funzione di metafora erotica). A questa alternanza di espressioni molto chiare o molto oscure, ambizioni poetiche (l'universo trova spazio dentro me) e snobismi («se fossi un altro uomo direi: poesia»), Battisti prestava il suo talento di musicista, e poi quella voce impressionante. Il dramma dei parolieri, infatti, è che scrivono per l'oralità. Il dramma simmetrico è quello degli ascoltatori, che in forza della musica, dell'interpretazione e di parole che funzionano perfettamente in quel contesto si possono ritrovare a canticchiare testi che altrimenti non amerebbero (come Glauco Mauri, il padre del morettiano «Ecce Bombo», che nel suo sonno agitato grufolava «Voglio Anna»). Fra il bravo Mogol e il pubblico, stava Battisti: e dava voce a un «canto libero», che consisteva nell'aggiungere a quelle parole la propria esecuzione, con pronuncia, inflessioni, singulti, urla, gemiti, sillabe scat («nara nara na nanna», in «E penso a te»). Quelle canzoni oggi non si possono ascoltare: si possono solo riascoltare, come un promemoria delle emozioni che ognuno di noi ci ha appeso sopra per conto suo, un eterno «mi ritorni in mente». Ma certo per anni quello è stato il mestiere, e l'intendimento, di Battisti: farci provare emozioni con il racconto di emozioni. Il gioco ripetuto deU'identifìcazione e poi l'irrompere dell'eccentricità Ma negli ultimi brani impera solo il sublime distacco dell'ironia