Lucio, l'ultima emozione

Lucio, l'ultima emozione Dopo due settimane di ricovero, il grande cantante è morto ieri mattina Lucio, l'ultima emozione Isolato dal mondo anche nella camera ardente MILANO. Tu chiamale se vuoi emozioni, per quella rosa rossa solitaria appoggiata al cancello della camera ardente dell'ospedale San Paolo. E per quel biglietto con tre firme e poche parole, dove si parla «dell'amico di sempre e di gioventù», del «segno che hai lasciato nei nostri cuori». Lo si capisce da quel biglietto, dalle rose bianche che arrivano alla direzione sanitaria, dalle cento telefonate, telegrammi e fax e mazzi di gladioli, che Lucio Battisti non era solo un cantante. «Era un grande», dice un signore con la maglietta a righe, tra i primi a venire qui in questo angolo di periferia vicino ai prati e alla tangenziale, dopo che le radio e le televisioni hanno fatto partire il tam tam, con quelle poche parole temute da giorni: «Lucio Battisti è morto questa mattina alle otto». E' morto dopo quindici giorni di quel male che lo ha mangiato dentro, fino all'inutile terapia intensiva e al bombardamento della chemio, fino a quando non ce l'ha fatta più e martedì pomeriggio alle quattro ha voluto il cappellano dell'ospedale, per l'estrema unzione da padre Bruno. «Aveva ancora quegli ultimi momenti di lucidità che si vedono dagli occhi e dal volto», racconta il cappellano. Quegli ultimi momenti finiti alle nove di sera, quando lo hanno intubato, quando gli hanno appeso la vita a una macchina, quando a quel punto c'era solo da aspettare nella saletta del seminterrato del San Paolo, con i monitor, i fili, le luci verdi e i medici che all'una di notte hanno dato l'allarme e chiamato la famiglia su alla villa di Molteno, il rifugio tra i boschi dove Lucio Battisti si era rinchiuso da quasi venti anni. E dove tornerà sabato mattina per i funerali in forma strettaniente privata nella cappella all'interno del Residence Dosso Coroide Lo ha detto il parroco di Molteno, don Carlo Ambrosoni, che ieri sera ha visto i familiari del musicista. «Sono stato avvertito alle sette e venti del mattino, mi sono precipitato in ospedale», racconta Franco Sala, direttore sanitario del San Paolo. Che non vuol dire una parola di più, per quel diritto alla privacy invocato dal cantante fin dal momento del ricovero. E allora, di ufficiale, rimane solo quel comunicato stringato. Poche parole, l'annuncio che arriva dai vertici dell'ospedale: «Nonostante tutte le cure dei sanitari che lo hanno assistito Lucio Battisti è deceduto per intervenute complicanze, in un quadro clinico severo sin dall'esordio». Non una parola di più. Non ima conferma se sia stato un tumore al sistema linfatico, al fegato o chissà dove, come se adesso fosse importante. Come se non bastasse la faccia di sua moglie Grazia Letizia Veronese, che passa sulla Mercedes argento, con una mano MartI funen appena a coprirsi il volto. O quella di Albarita Battisti, la sorella, che piange dopo la notte in ospedale. Una commozione privata, un sentimento non esibito, come voleva il cantante. «E' stato lui a chiedercelo, è stato lui che ha voluto stringere un patto con l'ospedale. Sapeva di cosa era ammalato, non voleva i riflettori addosso», spiega il direttore sanitario Franco Sala. E allora vanno bene gli infermieri che spingono via i capannelli di giornalisti, la polizia che arriva alle 11 mandata dalla Questura, i due sanitari che appendono davanti alla porta a vetri della camera mortuaria un foglietto bianco. «Accogliendo la richiesta della famiglia, la salma del signor Lucio Battisti può essere visitata solo da questi signori», c'è scritto, prima dell'elenco di nomi. Quello del figlio Luca che adesso passa con lo zainetto e la camminata pesante, anche lui in ospedale nella notte accanto alla madre, quello della moglie del cantante, della sorella, dei cognati. E poi basta, nessun altro può mettere il naso nella saletta a fianco della morgue, con il paravento davanti e il dolore che si incrocia con quello dei famigliari di altri morti. Come i tanti ragazzini che son qui per piangere l'amico morto di ictus che aveva solo diciannove anni e adesso urlano, ma appena un po', alle telecamere, ai flash, ai taccuini aperti che frugano tra i capannelli davanti al cancello marrone dove c'è quella rosa ros¬ one teno sa. E poi i fiori rosa che sembrano quelli della canzone e le margherite gialle. E qualcuno che tira su con il naso in questo miscuglio di dolore. «L'ho conosciuto nel '69, quando non era ancora nessuno e io suonavo in un complessino», giura Michele, che al San Paolo arriva con un cartello al collo con frasi rubate dalle canzoni di Battisti. E' uno dei tanti, chiamati qui dalla televisione, dalle radio che hanno interrotto i programmi per dare sfogo ai tanti. Che adesso dicono: «Era un mito, sarà un immortale». «L'era il noster mito, come Mina», dice la signora con i capelli bianchi e la radiolina accesa sul comodino, nella stanza numero 9 al secondo piano del reparto Medicina, dove Battisti è rimasto fino a lunedì, quando lo hanno trasferito in terapia intensiva. «Quando non parlava già più e i famigliari erano pronti al peggio», ricorda padre Bruno. «Quando ho visto passare i professoroni, ho capito che stava malissimo», racconta un'altra paziente, nella stanza accanto, mescolando italiano e tedesco, ricordi e compassione. Come tutti in questo ospedale che ha ospitato un fantasma e ha visto morire un mito. «Ma perché non ci fanno arrivare alla camera ardente? E' sbagliato, era come un fratello», è la protesta sommessa di Angela, ferma davanti al cancello marrone, dove arrivano altri mazzi di fiori e un cesto di rose mandato da chissà chi. «Speriamo che ci facciano partecipare almeno ai funerali, so che domani portano via la bara, va a Molteno», è la sua speranza, mentre si spengono le luci della camera ardente. Fabio Potetti Martedì chiese l'estrema unzione I funerali sabato mattina a Molteno nel suo rifugio fra i boschi ■ Che non si muore [per amore è una gran bella verità perciò dolcissimo [mio amore ecco quello, quello che da domani mi accadrà. Io vivrò senza te anche se ancora non so come io [vivrò [lo vivrò senza te] ■ Seguir con gli occhi un airone sopra [il fiume e poi ritrovarsi a volare [e sdraiarsi felice sopra l'erba ad ascoltare un sottile dispiacere Domandarsi perché quando cade la tristezza [in fondo al cuore come la neve non [fa rumore [Emozioni] ■ Una poltrona un bicchiere di cognac un televisore 35 morti ai confini di Israele e Giordania [Una poltrona] NON SARA' UN'AVVENTURA. L'album «Lucio Battisti» ('69) segna il debutto in società della coppia Battisti-Mogol: sarà l'unione più riuscita, prolifica e longeva nella storia della musica leggera italiana. All'inizio i due scrivono soprattutto per conto terzi, mentre la carriera solista di Lucio langue tra Cantagiri e Dischi per l'Estate. Poi quel giovane riccioluto con un testone così porta a Sanremo «Un'avventura» con Wilson Pickett; ed è subito hit parade EMOZIONI (TU CHIAMALE, SE VUOI). «Emozioni», nel 70, colpisce al cuore con una mitragliata di canzoni: «Fiori rosa, fiori di pesco», «Mi ritorni in mente», «Acqua azzurra acqua chiara». Battisti, coi pantaloni a zampa d'elefante, è già più leggendario che accessibile: un giovane contestatore come tanti, che cita Bob Dylan e avversa il matrimonio, ma anche un buon profeta: «Un giorno», dice, «diventerò ricchissimo» L'ORSO INNAMORATO. Terzo disco, «Amore E non amore», nel 71: ed è soprattutto l'amore ad occupare i pensieri del già celeberrimo duo: con canzoni come «Dio mio no» («Dio mio no / dimmi solo che verrà»), che cavalcano, regalando ai teen-agers brividi di trasgressione, un certo clima da via italiana alla liberazione sessuale. Su di sé, Lucio ha già idee chiare: «Non sono un personaggio e neppure un orso, ma un individuo che non vuole farsi consumare» Qui a fianco un negozio di dischi di Milano in lutto per la morte dell'artista Sotto: Petruccio Montalbetti ■ ■ cantante dei Dik Dik e grande "amico dell'artista scomparso