«I miei 9 mesi nell'inferno di una buca»

«I miei 9 mesi nell'inferno di una buca» Il racconto della prigionia fatto ai magistrati: trasportata su un camion che incappò in un posto di blocco «I miei 9 mesi nell'inferno di una buca» La Sgarella: non vedevo i miei piedi ma sentivo i topi MILANO. Dentro un buco, sotto terra, con una catena al collo: «Non riuscivo a vedere nemmeno 1 miei piedi tanto era buio. Ma ogni tanto sentivo la presenza dei topi...». Sono giornate dure, queste, per Alessandra Sgarella. Quasi quanto quelle trascorse in mano ai suoi rapitori tra le nebbie di Milano e le rocce dell'Aspromonte, per 266 giorni. Nel salotto di casa, davanti al pm Alberto Nobili e ai funzionari della polizia, da quando è tornata a Milano, ogni mattina deve far scorrere il film di un incubo che sembrava non dover finire mai. Mentre parla, il leggerissimo ticchettio di un computer portatile compila i file dei suoi ricordi che lei, in rigoroso ordine cronologico, elenca con una voce che a volte si rompe per l'emozione: dettagli, voci, rumori, odori, atmosfere, paure. Trapela qualche dettaglio. A partire da quella sera fredda e un po' nebbiosa dell' 11 dicembre di un anno fa, quando verso le 19,30 fece ritorno in via Caprilli dopo una giornata di lavoro: «Ero appena scesa dalla mia auto, quando ho visto tre persone che entravano dal cancelletto del condominio. Ho pensato che fossero inquilini e non mi sono allarmata. Erano tutti a volto scoperto. Ma quando stavo per entrare mi sono saltati addosso. Ho lottato, ho cercato di liberarmi, ma è stato inutile. Nella lotta mi sono anche caduti gli occhiali. Sono stata caricata a forza su un auto e siamo partiti. Il viaggio è durato mezz'ora, non di più. Quando siamo arrivati, sono stata chiusa in una specie di baracca interrata, bendata e legata. Doveva essere campagna. Faceva freddo e non potevo neanche lavarmi tutti i giorni. Sarò rimasta lì per quasi un mese. Ed è lì che ho trascorso Natale». Già, il Natale. Una festa tristissima in casa Sgarella: passata nell'angoscia della scomparsa di Ales- Sandra. E lei, in completa solitudine, sotto terra, a consumare quella famosa «mozzarella gelata», di cui ha parlato fin dai primi istanti di libertà. Un dramma che adesso Alessandra Sgarella deve rivivere necessariamente nella speranza che i suoi racconti possano aiutare gli investigatori a catturare i suoi carcerieri. E' una storia lunga, durata 9 mesi. Con episodi che si commentano da soli. Come quando, durante il trasferimento da Milano alla Calabria, la prima decade di gennaio, il camion su cui viaggiava, venne fermato per un controllo dalla polizia. Accadde anche per Soffiantini. Anche in questo caso si trattò di una semplice verifica dei documenti di guida. «Sentivo le voci, ma non potevo far nulla. Mi avevano impacchettata come un regalo. Prima mi hanno infilato una specie di passamontagna, un sottocasco da moto, leggero. Poi mi hanno avvolto nel cellophane, che avevano arrotolato su di me come un tappeto. Infine mi hanno sistemata in un altro contenitore, un cilindro di plastica». «I primi tempi - ha raccontato Alessandra - mi tenevano una catena al collo. Poi, quando hanno cominciato a fidarsi, la catena me l'hanno messa al pol¬ so. Mai mi hanno lasciata sola. Ero guardata a vista, i carcerieri si alternavano. Avevano sempre il volto incappucciato e a volte venivo bendata io. In faccia non ho mai visto nessuno». Banditi attentissimi, molto scaltri. Professionisti. Al punto che, avrebbe spiegato l'imprenditrice, raramente le rivolgevano la parola. «Ero sempre io a parlare, credo di averli sfiniti. Loro al massimo facevano qualche cenno, mugugnavano. Per un certo periodo mi hanno dato anche quotidianamente un giornale, potevo leggere anche le riviste inserto. Una volta ho visto un servizio sui sequestri di persona in cui si parlava anche di me. C'era la mia foto, poi quella di qualche boss della 'ndrangheta e infine quella di Nobili. Ricordo di aver pensato: questo è il magistrato che mi deve liberare, dai che ce la fai...». Nessuna violenza, poche minacce. Un atteggiamento quello dei carcerieri che si è rivelato, come efficacemente ha raccontato suo marito Pietro, «atrocemente civile». «Mi chiedevano - ha detto Alessandra Sgarella a verbale - se avevo caldo, se avevo freddo, se avevo bisogno di mangiare. Nessuna gentilezza, ma devo dire che hanno rispettato, se pur a livelli minimi, la mia dignità». La donna ha spiegato che i banditi le fornivano solo cibi freddi, comprati presumibilmente in qualche supermercato. «Avremo cambiato almeno tre covi. Erano sempre interrati». Per il momento con gli inquirenti, Sgarella ha affrontato solo la prima parte del sequestre, i primi mesi. Però ha già fatto qualche accenno anche alle fasi successive. In particolare a quel famoso 25 giugno, quando i 7 della famiglia Lumbaca, considerati gli autori del rapi¬ mento, vennero arrestati: «Avevo la speranza che la mia prigionia sarebbe durata ancora poco. Ma mi dovetti ricredere: i carcerieri si mostrarono tranquilli, sdrammatizzavano: "Sono dei balordi questi qui", dicevano. Così ho iniziato ad aver paura». Solo una volta, ha raccontato l'imprenditrice, ha visto i banditi irritarsi e diventare nervosi tanto da temere ripercussioni: è stato quando su due quotidiani, la «Gazzetta del Sud» e «Repubblica» venne riportata la notizia che alcuni telefoni pubblici dell'Aspromonte erano stati messi sotto controllo. Una fuga di notizie (nonostante il silenzio stampa) che danneggiò gravemente le indagini e rischiò di mandare a monte mesi di lavoro. Proseguirà anche oggi l'interrogatorio di Alessandra Sgarella. Sarà un racconto ancora lungo e pieno di fantasmi e paure. Le è vicino il marito. Ma il mondo, fuori, sembra non capire: polemizza, getta sospetti sul suo uomo, sugli inquirenti che l'hanno aiutata, forse su lei stessa. E Alessandra ogni tanto si ferma, piange. Legge i titoli dei giornali: il riscatto pagato in Germania o ad Hong Kong; 7 miliardi, no, sono 10... Un massacro. E per lei sono lacrime amare: «Forse dottore - dice rivolgendosi a Nobili, che ormai non sa più come farle coraggio qualcuno vorrebbe che io tornassi laggiù, che mi seppellissi ancora in quel buco...». Paolo Colonnello fi fi Per 30 giorni sono stata nascosta in una baracca interrata, bendata e legata vicino a Milano ij j UaIprimo trasferimento sono stata incappucciata legata col cellophane e infilata in un contenitore di plastica sp ij fi fi All'inizio mi tenevano una catena al collo, ero guardata a vista. Per cibo una mozzarella gelata j ti fi In faccia non li ho mai visti, ero sempre io a parlare e credo di averli sfiniti. Chiedevano se avevo freddo se avevo bisogno di mangiare Nessuna gentilezza ma rispettavano la mia dignità ■■ I L

Luoghi citati: Ales, Calabria, Germania, Hong Kong, Milano