LA NOSTRA PSICHIATRIA SA CURARE I «SELVAGGI»?

LA NOSTRA PSICHIATRIA SA CURARE I «SELVAGGI»? LA NOSTRA PSICHIATRIA SA CURARE I «SELVAGGI»? Sapere occidentale e culture degli immigrati INFITTIRSI dei flussi migratori rende inevitabile il confronto e lo scontro tra culture diverse. Di conseguenza, molte illusioni sono destinate a scomparire. Per esempio, una volta si diceva che gli italiani non sono razzisti. Certo, non lo erano finché non avevano occasioni per esserlo. Ma oggi, nelle nostre città multirazziali, la sindrome dell'assedio spinge a comportamenti di intolleranza, la cui giustificazione teorica viene volentieri ricondotta alla asserita inferiorità (intellettuale, morale ecc.) dello straniero. E' difficile distinguere chiaramente tra inferiorità e diversità; difficile perché costoso, in quanto ehmina il fondamento per così dire scientifico della nostra ripugnanza e ci obbliga a motivare il nostro eventuale rifiuto con argomenti molto più personali, legati alla salvaguardia dei nostri interessi e delle nostre abitudini di vita. Di fronte alla concreta difficoltà a dislocarsi rispetto al proprio punto di vista, le aspirazioni alla pace, al rispetto e alla tolleranza restano spesso pure formule retoriche. Più facile è cercare di imporre la propria visione del mondo, definendola come la più avanzata o la più efficace. Un esempio caratteristico di questo atteggiamento è rappresentato dalle cure psichiatriche. Per la generalità degli psichiatri è assolutamente ovvio curare i disturbi mentali degli immigrati dai Paesi africani con i metodi della medicina occidentale (farmaci ed, eventualmente, psicoterapia). In questa posizione è implicita la convinzione che le cure occidentali hanno uno statuto scientifico che ne garantisce l'universalità al di là delle differenze culturali. Ma è anche sottintesa una riduzione meccanicistica dell'individuo, come se la terapia fosse sempre terapia di un organo, avulso dalla totalità del soggetto sofferente. Il risultato è che spesso queste cure sono inefficaci; non solo, ma rappresentano una pratica che favorisce l'ulteriore sradicamento degli immigrati rispetto al loro sistema di riferimento, e dunque è generatrice di ansia. Tanto più interessanti sono pertanto la riflessione teorica e l'attività pratica di Tobie Na¬ than, uno dei più noti etnopsichiatri europei e responsabile, a Parigi, di un Centro per l'aiuto psicologico alle famiglie immigrate. Questo suo libretto, ora opportunamente ripubblicato, redatto con uno stile vivace e risentito sotto forma di dialogo con un interlocutore immaginario, contiene una esposizione molto chiara e convincente delle differenze tra la nostra concezione del disturbo psichico e quella delle società tradizionali, nonché una esemplificazione suggestiva di come operatori occidentali sono in grado di immergersi nel mondo culturale dei loro pazienti e di utilizzare tecniche terapeutiche coerenti con i principi e le rappresentazioni proprie di quel mondo. Alla base del lavoro di Nathan è un atteggiamento pragmatico, secondo cui la legittimazione di un intervento non va cercata nella sua «verità» scientifica ma nella sua efficacia (già Jung aveva scritto che da psiche non si cura delle nostre categorie di realtà: reale è ciò che ha effetto, che agisce»). Altro presupposto è che la cura è tanto più efficace quanto più veicola dei significa- ti compatibili con l'universo di valori che il paziente condivide, confermando così le sue appartenenze originarie. Leggendo questo saggio, ho provato a cercare, sotto l'apparente diversità, i punti di contatto tra le concezioni «primitive» dei disturbi psichici e la rappresentazione che ne danno i nostri pazienti occidentali colti, traendone la convinzione che le concordanze sono molto più numerose di quanto si immagini. Ad esempio, la nostra psicopatologia sostiene che la malattia è radicata nel soggetto, nei suoi geni o nella sua storia; fra i «selvaggi» invece si pensa che la malattia viene da fuori, che è stata cioè inviata da uno spirito, un dio, uno stregone. Teoricamente, la differenza è enorme. Ma quando un paziente entra nello studio del terapeuta e con aria atterrita dice: «Mi sta capitando questo», le parole rivelano che la sua esperienza è quella di un'azione esterna soverchiente. In altri termini, nell'Occidente iUuminista gli Dèi sono diventati malattie: cambiano le parole ma la sostanza psicologica resta identica. Un altro esempio: la terapeutica selvaggia consiste spes¬ so nel tentativo di individuare l'agente sovrumano responsabile, di entrare in rapporto con lui e di contrattare la guarigione. Ma la nostra teoria dell'inconscio, spogliata delle sovrastrutture intellettualistiche, non è la conferma dell'esistenza di un «reame degli Invisibili»? L'analogia appare ancora più evidente quando si pensi che sempre più nelle nostre terapie si dà importanza alla personificazione delle figure inconsce e all'instaurazione con loro di un dialogo che ha tutti i caratteri della realtà. Ciò per dire che è per noi importante renderci conto non solo che esistono sistemi terapeutici irriducibili ai nostri ma anche che i nostri stessi sistemi, se interrogati a fondo, mostrano delle inquietanti analogie con quelli dei primitivi. In definitiva, un libro stimolante e, a suo modo, educativo. Il saggio di Nathan è seguito da una interessante riflessione di Isabelle Stengers, filosofa della scienza, sui limiti epistemologici della medicina occidentale. Augusto Romano La cura è tanto più efficace quanto più sa essere compatibile con l'universo dì valori che il paziente condivìde MEDICI E STREGONI Tobie Nathan e Isabelle Stengers Bollati Boringhieri pp. 144, L 24.000 Uno sciamano nepalese L'immagine è tratta dal volume «Sciamani» di P. Vitebski pubblicato dalla Edt

Persone citate: Augusto Romano, Isabelle Stengers, Jung, Tobie Nathan

Luoghi citati: Parigi