RINA FORT, DUE UOVA DOPO LA STRAGE di Oreste Del BuonoGiorgio Boatti

RINA FORT, DUE UOVA DOPO LA STRAGE RINA FORT, DUE UOVA DOPO LA STRAGE Uccise la rivale e i suoi tre figlioletti Ldgftk ALTRA sera noi eravamo a tavola per il pranzo quando poche case più 1 in là una donna ancora giovane J massacrava con una spranga di ferm ro la rivale e i suoi tre figlioletti. f , Non si udì un grido. Negli appartamenti vicini continuavano fra tintinnio di posate e stanchi dialoghi i pranzi familiari come se nulla fosse successo e poi le luci a una a una si spensero, solo rimase accesa nel cortile quell'unica finestra al primo piano...». E' il magico inizio del primo articolo scritto da Dino Buzzati per il «Corriere della Sera» sul caso di Rina Fort. Dino Buzzati, oltre che un grande scrittore, è stato un grandissimo cronista. E Rina Fort è stata in un certo senso la sua ispiratrice. Dino Buzzati ha continuato a scrivere su di lei articoli, senza stancarsi, seguendo le inchieste e i processi, cercandone una più perspicace identificazione. Caterina Fort era nata a Santa Lucia di Budoia in Friuli il 28 giugno 1915. A tre anni aveva perduto la nonna amatissima e irrimpiazzabile come narratrice di fiabe. A dieci anni le era toccato vedere il padre scivolare su un sentiero di montagna e, senza che nessuno potesse salvarlo, andare a sfracellarsi. Pochi mesi dopo il fuoco l'aveva stanata dalla sua casa distrutta. Era come se la sfortuna si accanisse su quanto le era caro per punirla di qualcosa che aveva o che avrebbe commesso. Il destino di certi disgraziati, a volte, si delinea per tempo. E' inutile essere generosi. Lei ci aveva provato, comunque. A dodici anni era già donna e l'aveva capito da come la guardavano gli uomini. Ma aveva scelto un ragazzo malato di tisi. Aveva fantasticato di andare a vivere a Milano con lui. Ma il fidanzato era morto troppo presto e lei aveva rinunciato alla trasferta milanese. Si era sposata con Giuseppe Benedet, un paesano con cui aveva scambiato cartoline e lettere affettuose durante la guerra d'Etiopia. Ma il giorno delle nozze l'uomo aveva dato segni di squilibrio. E due giorni dopo era finito in manicomio. Così Rina Fort aveva preso la via di Milano e la sorella Anna che faceva la portinaia in via Panfilo Castaldi le aveva trovato un posto da cameriera presso un commerciante di tessuti, Varon Vitali. Da cameriera e non solo da cameriera. A lei, per la verità, fisicamente quell'uomo faceva schifo, ma era buono, e lei aveva ceduto perché per la prima volta nella sua vita si era sentita protetta da qualcuno. Era stato lui a presentarla a un altro commerciante di tessuti, Giuseppe Ricciardi, che aveva appena aperto un negozio in via Carlo Tenca. Si erano piaciuti, e Rina Fort era stata assunta come commessa. Non solo come commessa, naturalmente. Gli uomini pretendevano sempre qualcos'altro da lei, ma almeno, questa volta, l'uomo era di suo gusto, così alto e magro con quei baffetti neri da seduttore e la parlantina siciliana da imbonitore. Lui non le aveva detto di essere sposato e lei non aveva indagato molto. Aveva 31 anni ed era tempo che si facesse valere. Era forte, intraprendente, decisa: al suo uomo, a quello che credeva il suo uomo, aveva dedicato tutta la sua intelligenza e tutta la sua energia, aveva ottenuto ottimi risultati. Era contenta di come andavano le cose, tanto da non fare una tragedia quando aveva scoperto che Ricciardi non era affatto scapolo, ma aveva una moglie e tre figli a Catania. Non aveva voluto perdere il suo posto. Le bastava che quella moglie se ne restasse dov'era. Sarebbe stato un bene per tutti. La Sicilia era lontana. Illusioni. Nel 1946 le poste non avevano ancora ripreso a funzionare regolarmente, ma le denunce anonime e i pettegolezzi raggiungevano puntualmente gli interessati. Quella zona di Porta Venezia che un tempo aveva ospitato quasi solo commercianti ebrei, dopo la loro scomparsa a causa delle leggi razziali era un vero porto di mare dominato dai siciliani e all'interessata non erano mancati gli avvertimenti. L'interessata era la signora Franca Pappalardo in Ricciardi residente a Catania. E così un giorno la moglie con i piccoli Giovannino, Giuseppina e Antonuccio aveva fatto irruzione senza preavviso al numero 40 di via San Gregorio e la rivale illegittima era stata licenziata in tronco, mentre a Ricciardi era stato proibito di rivederla. Ricciardi aveva eseguito più che altro a parole, ma aveva continuato a vedere quasi tutte le sere Rina Fort che aveva trovato un impiego in una pasticceria di via Settala. Lui si preoccupava più degli affari che non andavano bene che delle sue donne. Ma in Rina Fort aumentava la tensione. La sera del 29 novembre il suo Pippo non era lì a consolarla. Era a Prato per acquistar merce. «Vagavo senza meta», dice Rina Fort in una delle sue innumerevoli confessioni, «quando all'altezza di via Tenca automaticamente mi voltai, entrai al numero 40 di via San Gregorio e bussai alla porta d'ingresso della famiglia Ricciardi. Ricordo che la signora mi aprì la porta reggendo in braccio il piccolo Antonuccio. Mi disse: "Lei deve mettersi l'animo in pace e non portar via il mio Pippo che ha una famiglia e dei bambini". Poi depose il bambino sul seggiolone, e mi portò una bottiglia di liquore, allindi ritornò nella camera per prendere un cavatappi. A questo punto ruppi il collo della bottiglia di liquore e ne bevvi in abbondanza. La signora allora si precipitò verso di me... Accecata dalla gelosia le andai incontro. Lei si spaventò, indietreggiando, io mi avventai su di lei e la colpii ripetutamente alla testa con un ferro...». Il racconto è terribile e non basta a contenerlo la trascrizione impacciata degli agenti che interrogavano. Anche la rudezza delle parole aumenta la ferocia. «Lei cadde tramortita sul pavimento, io continuai a colpire. Il piccolo Giovannino si era lanciato in difesa della madre, afferrandomi le gambe. Con uno scrollone lo scaraventai nell'angolo e alzai il ferro su di lui: alcuni colpi andarono a vuoto e colpirono il muro, altri lo raggiunsero al capo. Preciso di avere abbattuto prima Giovannino, poi, entrata in cucina, colpii la Pinuccia. Ad Antonuccio seduto sul seggiolone infersi un solo colpo in testa. Frattanto Giovannino si era alzato dall'angolo dove giaceva, per cui calai su di lui altri colpi, facendolo stramazzare esanime. La Pinuccia, colpita in cucina, era caduta riversa sul tavolo. Terrorizzata dal macabro spettacolo, scesi le scale... Rimasi seduta sul primo gradino pochi attimi per riprender fiato, poi risalii le scale dell'appartamento nel quale le luci erano accese come le avevo lasciate. La signora e i tre figli non avevano ancora esalato l'ultimo respiro. Misi a soqquadro la casa intera, non so a quale scopo...». Tornandole qualche brandello di ragione, evidentemente Rina Fort pensava al dopo, a fingere una possibile rapina compiuta da sconosciuti o conoscenti: «Non era ancora morto nessuno: il piccolo respirava, la signora si dimenava, la Pinuccia rantolava e la signora, fissandomi con occhi sbarrati, diceva sommessamente: "Disgraziata! Disgraziata! Ti perdono perché il mio Pippo ti vuol tanto bene". Poi soggiunse: "Ti raccomando i bambini, i bambini...". Mi chiese aiuto, la signora, mentre continuava a dimenarsi. Singhiozzava e si mise bocconi. Mi diressi verso la camera da letto e passai su di lei con tutto il peso del mio corpo... Le vittime agonizzavano ancora quando accostai la porta e discesi le scale. Andai a casa e mangiai due uova fritte con grissini. Gli oggetti d'oro e i denari li gettai nella mia pattumiera. Non ricordo dove gettai il ferro che avevo trovato in cucina. Me ne liberai durante il tragitto per andare a casa...». Questa è l'unica confessione in cui Rina Fort ammetta di avere ucciso, oltre Franca Pappalardo in Ricciardi, i tre bambini. Rina Fort l'ha sempre rinnegata, accusando la polizia di avergliela estorta con mezzi illeciti. Sin dagli inizi, il caso, comunque, si complicò per la confusione provocata dal fatto che il luogo del delitto venne invaso da molti giornalisti, fotografi e curiosi, arrivati insieme con la polizia o anche prima. Fu possibile superare gli ingenui e goffi tentativi di Rina Fort di simulare una rapina, ma avvenne addirittura che un noto fotografo trascinasse i cadaveri delle vittime perché entrassero tutte nel campo del suo obiettivo. Condannata all'ergastolo nel 1950, dopo un quarto di secolo Rina Fort ottenne per buona condotta la grazia del presidente della Repubblica Giovanni Leone. Morì d'infarto nel 1988. Nella sua corsa verso l'annientamento la ribellione di Rina Fort adempie a un progetto di sofferenza irredimibile da tragedia greca. Rina Fort distrugge gli altri, per distruggere in loro il fallimento di se stessa. E' l'unica via d'uscita, il solo modo di superare l'ingiustizia di una vita condannata al torto quasi sino dal primo vagito. Rina Fort vive d'odio con il disperato coraggio della sua malattia. La sterilità. Oreste del Buono Giorgio Boatti Rina Fort, condannata all'ergastolo nel 1950

Luoghi citati: Budoia, Catania, Etiopia, Friuli, Milano, Prato, Sicilia, Venezia