Metteva nei suoi quadri la sintassi dello schermo di Marco Vallora

Metteva nei suoi quadri la sintassi dello schermo Era anche pittore Metteva nei suoi quadri la sintassi dello schermo Ci HE il regista Kurosawa fosse anche pittore, lo si poteva intuire già dai suoi film, dal garrire astratto e lentissimo delle bandiere imbrunite dalle corazzo di Kagemu_Jsha, dal giallo imbiondito di grano che invadeva il mondo vangoghiano di Sogni o quello tutto franar petali di pesco da parere un Galileo Chini, o infine dall'euritmica simmetria barbara che raggelava il pirandellismo nudo di Rashomon. Ma era davvero una singolare figura di regista-pittore, diverso per esempio da un Peter Greenaway che ha esordito come artista figurativo-concettuale, o di un Fellini che rimase, nel tratto, un trasognato vignettista. Più vicino forse a un Antonioni, con le sue montagne pennellate alla zen, che non a Pasolini o Wenders, pittori per lo più segreti e bigami, separati nella famiglia delle aiti. In fondo Kurosawa era più un pittore quando girava i suoi film compassati e crudeli, pure dal punto di vista scenografico, quasi le sue sequenze fossero liturgicamente miniate sulla pellicola, mentre invece nella sua pittura faceva entrare sottilmente l'inquietudine rincuorata del regista, la sintassi processionale del cinema. Era un pittore di serie animate. E rimangono memorabili le strisce, labilmente acquerellate ma gremite di dettagli delle sue story board, cioè quei «diari disegnati» con cui sceneggiatori e registi «provano» sulla carta i futuri movimenti che avrebbe compiuto la sua macchina da presa. Non era un traditore delle sue radici, Kurosawa, ma certo la sua era una mediazione molto forte e importante con il gusto occidentale, poi ritradotto in sequenze di purità taoista. Paradossalmente il suo occhio era piìi educato alla scuola dei battaglisti europei, da Luca Giordano a Delacroix che non irreggimentato entro i geroglifici piovigginanti di Hocusai o Hiroshige. Preferiva le lunghe campiture classiche dei piani-sequenza allo stillicidio montato di dettagli fioriti. Anche se a ben riflettere l'arte dell'd plat, attraverso i Nabis, nasce proprio in un clima di japonisme imperante. Ed è bello dunque pensare che per uno strano détour del destino, nel Sogno dedicato a Van Gogh, in un trionfo nero di corvi, il giapponismo di quegli anni simbolisti e Mallarmé ritornino magnificamente a fiorire nel sogno intemporaneo di un grandissimo giapponese. Marco Vallora