KUROSAWA lo schiavo del cinema
KUROSAWA lo schiavo del cinema Il grande regista è morto a Tokyo, all'età di 88 anni. Con il realismo epico dei suoi capolavori ha imposto un nuovo modello spettacolare KUROSAWA lo schiavo del cinema E| morto ieri mattina, per /un colpo apoplettico, all'età di 88 anni, nella sua casa di Tokyo, il regista 1 Akira Kurosawa. Fu nel 1951, alla Mostra del cinema di Venezia, che il nome di Kurosawa si impose all'attenzione del pubblico e della critica internazionali. Il Leone d'oro assegnato al suo Rashomon fece epoca. Non soltanto si scoprì un grande regista, che aveva al suo attivo già una decina di film ma di cui si ignorava quasi tutto, e si mise in luce un grande attore, Toshiro Mifune, anch'egli con una decina di film alle spalle ma totalmente sconosciuto in Occidente; ma si aprì finalmente uno spiraglio sul cinema giapponese, che da allora e per molti anni cominciò a circolare in Europa e in America, collezionando non pochi premi nei festival e conquistando a poco a poco il pubblico occidentale. Così, accanto a Kurosawa, ecco apparire Kenji Mizoguchi, e poi Yasujiro Ozu, Kaneto Shindo, Kon Ichikawa, Shohei Imamura e tanti altri, sino a Nagisa Oshima e ai giovani registi degli Anni Settanta e Ottanta. Ma fu certamente Akira Kurosawa, prima con Rashomon, poi con I sette samurai, a imporre il cinema giapponese in tutto il mondo, a farne un nuovo modello spettacolare, in cui tradizione e novità, elementi profondamente nipponici e motivi occidentali si fondevano in una superiore unità espressiva. Perché non v'è dubbio che la storia pirandelliana di Rashomon, il suo gusto per le atmosfere misteriose ma anche per i forti conflitti drammatici, il progressivo coagularsi dell'attenzione su pochi fatti essenziali e tuttavia sfuggenti a ogni rigida catalogazione, affascinarono e incuriosirono; come colpirono le gesta dei Sette samurai (di cui finalmente si può vedere l'edizione originale di quasi tre ore e mezzo, massacrata dai produttori alla sua uscita sugli schermi nel 1954), in cui guerrieri e contadini si alleavano per combattere i banditi e dalla loro solidarietà scaturiva una società di «uguali», osservata da Kurosawa con straordinaria attenzione ai pie- coli fatti, gesti, comportamenti, sentimenti. Perché Kurosawa, che era nato a Tokyo nel 1910 e aveva trascorso l'infanzia e la giovinezza in un Giappone percorso da crisi sociali e politiche, partecipando attivamente alla vita nazionale da posizioni di sinistra (si leggano le belle pagine della sua autobiografia L'ultimo samurai, uscita in Italia nel 1995), non dimenticò mai le sue origini e il suo impegno sociale, anche quando affrontò, dopo un lungo apprendistato nel mondo del cinema (in cui entrò a ventisei anni), temi e soggetti storici o leggendari. Non dimenticò le origini Ma il suo impegno non si esplicò in una semplice descrizione della realtà, o in una dichiarata presa di posizione politica o ideologica, quanto piuttosto in uno stile composito, barocco e coinvolgente, in cui il reali¬ smo dello sguardo si mutava in una rappresentazione prospettica, persili fantastica, del reale. Fu questo stile ad affascinare il pubblico e la critica, questo suo modo originalissimo di seguire i personaggi dentro ambienti che mutavano secondo le loro azioni, pensieri, sentimenti. Come se la realtà fosse continuamente trasfigurata dalla forma che via via il film veniva assumendo. E se Rashomon e I sette samurai aprirono la strada ad altre opere del medesimo tono, in cui storia e leggenda si mescolavano con effetti di grande suggestione spettacolare, come lì trono di sangue (1957), che era una trascrizione giapponese del Macbelh scespiriano, La fortezza nascosta (1958), La sfida del samurai (1961), Sanjuro (1962), tutti film di samurai interpretati da Mifune; non fu soltanto il genere jidaigcki (cioè storico-leggendario) che Kurosawa praticò, anzi. Tanto i suoi film precedenti dopo l'esordio nel 1943 con Sugata Sanshiro, che narra la vita e l'opera del maestro di judo Sugata -, quanto molti di quelli seguenti trattano questioni contemporanee, con uno sguardo rivolto soprattutto all'individuo, alla sua miseria morale e materiale, ai casi quotidiani della vita. In uno sforzo di cogliere la complessità del reale usando uno stile al tempo stesso naturalistico e trascendente. Come si vide in certi film degli Anni Quaranta - ad esempio L'angelo ubriaco (1948) o Cane randagio ( 1949) - e soprattutto in quella che possiamo chiamare la tetralogia della solitudine, cioè L'idiota (1951) da Dostoevskij, Vivere (1952), Testimonianza di un essere umano ( 1955) e / bassifondi (1957) da Gorkij, in cui è più forte l'introspezione dei caratteri e la descrizione dell'ambiente che non gli effetti dinamici e ritmici d'uno spettacolo barocco. 0 nel suo capolavoro di quegli anni, Le canaglie dormono in pace (1960), che è un'analisi della società giapponese fra passato e presente, molto critica e problematica, tutta condotta nelle forme e nei modi d'una tragedia dei tempi moderni. Ed è ernesta nuova dimensione spettacolare, più contenuta di quella dei film di samurai, forse anche più profonda, meno ridondante, che caratterizza film di grande umanità come Barbarossa (1965), Dodes'ka den (1070), e più ancora Dersu Uzaìa (1975), ritratti di gente umile, forte, che accetta la vita per quella che è, ma non si rassegna, anzi combatte e riesce a vincere le difficoltà quotidiane. Una grande lezione di stile, che è anche una grande lezione morale. I ritratti morali della maturità Come morali e profondamente umani sono i ritratti che Kuros.iwa tratteggiò nei film degli Anni Ottanta e Novanta, che riprendevano in parte i motivi di certe opere precedenti c li approfondivano in un più vasto quadro di riferimento storico e ambientale. Basti pensare allo splendido Kagemusha (1980), in cui la tensione morale, con risvolti inquietanti, sottintendeva la rappresentazione delle grandi battaglie e dei grandi conflitti; all'intenso Ran (1985), liberamente ispirato al Re Lear di Shakespeare, uno degli autori occidentali più amati e seguiti da Kurosawa; alla fantasia e alla grazia malinconica dei Sogni (1990); alla coinvolgente Rapsodia d'agosto (1991), in cui la tragedia della bomba atomica trova i toni giusti di un ricordo triste, ma non disperato, commovente ma non sentimentale; a Madadayo - Il complean no (1993), omaggio, quasi autobiografico, ai propri maestri. Un percorso artistico, quello di Akira Kurosawa, che ha toccato in pari misura le corde più profonde dell'animo umano e le ricerche più raffinate del linguaggio filmico. Un'opera, la sua, che ha segnato un'epoca, in cui tradì • zione e novità hanno trovato quell'equilibrio che invano andiamo cercando in molta produzione cinematografica d'oggi. Di qui la sua statura di maestro, la sua grande lezione di umanità. Gianni Rondolino Nel suo stile barocco e coinvolgente fondeva elementi nipponici e motivi occidentali Rivolse lo sguardo all'individuo, alla sua miseria morale e materiale Fu molto amato e anche copiato sia a Hollywood che in Europa KUROSAWA lo schiavo del cinema ! Sopra un'immagine del regista scomparso. A destra «Rashomon»
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