CROCIATE

CROCIATE A nove secoli dalla conquista di Gerusalemme un libro esalta il trattato del francescano Fidenzio da Padova, manuale di strategia politica del 1292 CROCIATE Una scuola per il dominio Adispetto di studi sempre più approfonditi e raffinati, l'immagine delle crociate è ancora ipertradi izionale. Né è riuscita a modificarla quest'epoca di celebrazioni e convegni in occasione del novecentesimo anniversario della prima spedizione in Terrasanta, ricorrenza che si estende lungo tre anni dovendo coprire il periodo che va dalla partenza di Goffredo di Buglione nel 1096 alla conquista di Gerusalemme nel 1099. Anzi. Il fatto che per l'occasione siano pubblicati o ripubblicati libri, spesso datati, sulle Crociate, ha semmai consolidato l'immagine di sempre. Ed è per reagire a questa mancanza di apertura e di innovazione nel modo di guardare a quella remota epopea, che qualche settimana fa, uno dei migliori medioevisti italiani, Franco Cardini, ha portato allo scoperto la questione nel mondo cattolico criticando duramente dalle colonne di Avvenire la riedizione da parte di Piemme della Storia delle Crociate di René Grousset. Cardini imputa alla pubblicazione di essere carente quantomeno di una introduzione dalla quale il lettore possa apprendere che si tratta di un vecchio libro (l'autore è morto quasi mezzo secolo fa). E possa altresì sapere che, per giunta, il volumetto è il sunto di un'opera molto più completa, in tre tomi, YHistoire des Croisades che Grousset scrisse a metà degli Anni Trenta. Ma, oltre a questo, lo studioso accusa il libro in sé di riaffermare un modo di leggere il movimento e l'idea stessa di Crociata alla stregua di «una serie di esperimenti e di campagne militari, in una prospettiva che purtroppo è ancora viva e diffusa». Prospettiva che «più che inutile appare dannosa e che... lascerà intatti i vecchi pregiudizi». A risarcimento almeno parziale di questa più che giustificata protesta di parte cattolica, in autunno sarà pubblicato dal Mulino un libro di Paolo Evangelisti, Fidenzio da Padova e la letteratura crociato-missionaria minorìtica, che è destinato ad essere il fiore all'occhiello di una tra le più serie istituzioni culturali laiche del nostro Paese, l'«Istituto italiano per gli studi storici» di Napoli, fondato da Benedetto Croce e che può essere ancora considerato, grazie all'abnegazione degli eredi, all'altezza del nome del filosofo. Intrigante sottotitolo di questo libro: «Strategie e modelli francescani per il dominio (XIII-XV sec.)». Intrigante perché mette assieme due termini almeno apparentemente contraddittori: «francescano» e «dominio». Cos'ha da spartire il concetto di «dominio» con la «regola» del poverello d'Assisi e dei suoi seguaci? In che senso i minoriti, gli appartenenti all'ordine dei frati minori francescani, ebbero che fare con tecniche di conseguimento e accrescimento del potere? Il saggio di Evangelisti affronta proprio tali questioni. Si tratta di uno studio interessantissimo sul Liber recuperationis Terrae Sanctae, un testo commissionato al francescano Fidenzio da Padova da papa Gregorio X nel 1274, all'epoca del secondo Concilio di Lione, e consegnato a un altro papa, Nicolò IV, diciotto anni dopo, nel 1292. Siamo nella fase conclusiva dei due secoli di Crociate in Terrasanta, al momento della caduta di San Giovanni d'Acri (1291) quando i mamelucchi guidati dal sultano alAshraf Kalil posero fine al Regno di Gerusalemme, con una tale devastazione della regione che, anche per la memoria di ciò che accadde in quei giorni, in quelle terre di crociati non se ne sarebbero visti mai più. Fu a ridosso di quest'episodio che cominciò a fiorire una trattatistica che cercava di spiegare il perché del fallimento delle Crociate (anche se, quando Fidenzio scriveva, San Giovanni d'Acri non era ancora caduta, la fine era nell'aria) e dava indicazioni su come impostare in maniera più appropriata il «recupero della Terrasanta». Trattati di cui il Liber di Fidenzio è sicuramente tra i primi in tutti i sensi. Dopo il suo verranno quelli di Galvano da Levanto, Carlo d'Angiò, Ramon Lull, Pierre Dubois, Marin Sanudo il Vecchio, Guglielmo di Nogaret. Fino ad oggi, però, i grandi storici delle Crociate, come Steven Runciman, avevano guardato al Liber come a uno di quei testi che aiutano, più che altro, a capire la disfatta delle spedizioni per la Liberazione del Santo Sepolcro. Merito di Evangelisti è invece quello di aver messo in evidenza la ricchezza di quel testo. E l'albero nato dal seme di quella lontana relazione al Pontefice su un imminente disastro. In altre parole: il libro di quel francescano del tardo Duecento serve sì a comprendere come finì la stagione delle Crociate; ma ancor più a conoscere come nacquero e furono definite impostazioni etico-politiche, appunto di «dominio», fondamentali per i secoli successivi. Il Liber è costituito da novantaquattro capitoli di cui oltre venti mirano a definire le figure ottimali del leader («dux») e degli uomini («pugiles Christi») che potrebbero rendere vincente una Crociata. Impresa che, è chiaro fin dal titolo del libro, dev'essere finalizzata alla conquista, non già dei soli Luoghi Santi, bensì di tutta l'immensa regione che va dai confini della Tunisia o dell'Egitto alla Siria e all'Eufrate. Fidenzio che era stato per anni vicario della Provincia di Terrasanta, conosceva alla perfezione l'arabo, il Corano e aveva frequentato il sultano oltreché l'esercito nemico propone un'organizzazione militare che, a differenza di quella che aveva conosciuto, doveva assomigliare il più possibile per coesione interna e unicità di guida a quella dei mamelucchi. Mamelucchi i quali avrebbero dovuto essere piegati prim'ancora che sul campo di battaglia da una strategia impostata, in modo assai innovativo, sul blocco delle navi che commerciavano con il sultanato. «La proposta operativa del suo piano - riassume Evangelisti - si concretizza in un'azione di riconquista militare combinata per mare e per terra, che è però considerata solo come ultima ratio di una serie di pressioni sull'Infedele compiute attraverso operazioni economico-commerciali, quali l'embargo e l'attivazione di una politica diplomatica internazionale per stringere alleanze con i nemici dell'Egitto... L'idea dell'embargo applicato ai danni dell'Egitto, ricorrendo al blocco navale del Mediterraneo orientale, è così solo un tassello, anche se il più importante e innovativo di un'ipotesi pragmatica di azione molto complessa». Cosicché la battaglia, il combattimento finiscono sullo sfondo e sale sul proscenio la tecnica politica. E quali sono questi nemici dell'Egitto con i quali Fidenzio suggerisce di stringere alleanze? Il re dei Tartari (il Khan persiano) e quello della Piccola Armenia, i cristiani orientali non greci, persino i mongoli che «costituirebbero un vero cuscinetto, un'interposizione politico-militare tra Saraceni e Cristiani, nonché un fattore di evidente interferenza nel sempre più compatto dominio territoriale afroasiatico mamelucco». E' importante sottolineare ancora come la guerra combattuta, lo scontro mortale, l'«effusio sanguinis», anche il martirio sono visti come alternativa da evitare almeno fino a quando non si troveranno definitivamente ostruite tutte le «vie pacifiche». Anche quelle percorribili solo con una notevole dose di spregiudicatezza. Quest'invito a battere gli infedeli alleandosi con altri infedeli ha dietro di sé mezzo secolo di esperienze asiatiche proprio dei francescani. Esperienze in base alle quali, come ricorda Evangelisti, i francescani del Duecento «ottengono vitalizi da parte del Khan, non certo cristiano, fino a riuscire a insediarsi entro la stessa corte di Kambaliq (Pechino), ove ebbero anche la possibilità di costruire e amministrare edifici di culto». Dopo il 1245, l'anno dei primo Concilio di Lione, quando Giovanni da Pian del Carpine viene inviato dal pontefice Innocenzo IV come legato papale «ad tartaros» e soprattutto verso la fine del Duecento quando si moltiplicano le missioni ad Oriente, fiorisce una letteratura di «epistolae» e «relationes» di vescovi ambasciatori francescani in Asia. Da questa documentazione emerge con chiarezza la capacità francescana di operare, all'indomani delle invasioni mongole che avevano seminato il terrore in Europa, in terre decisamente ostili al cristianesimo riuscendo a volgere a proprio vantaggio il contatto con quei nemici lontani. Come? Con l'adozione di tecniche di dominio elaborate sulla base dell'esperienza religiosa. Il francescano, scrive Evangelisti, «è attento alla costruzione e alla diffusione della propria immagine secondo uno schema di "humilitas" potente, dunque di chi, in virtù di uno statuto pauperistico volontario, è riuscito ad accedere alle massime sfere del potere più inaccessibile, quello del nemico». E in Terrasanta Fidenzio farà tesoro di quell'esperienza. Anche qui r«humilitas» sarà una chiave di volta della costruzione dell'immagine del condottiero. Assieme alla capacità di mettere in ginocchio il nemico senza ricorrere, o ricorrendo il meno possibile, al sacrificio di vite umane. Fidenzio analizza con grande scrupolo le fonti di guada- gno dei musulmani rappresentate dai proventi dei commerci con i cristiani e propone, come s'è detto, l'embargo per por fine ad un traffico che porta ricchezze e materie prime fondamentali indispensabili all'esercito del sultano. Blocco che dovrà interrompere anche il mercato degli schiavi che una volta in Egitto vengono convertiti all'Islam, addestrati alle attività militari e diventano i migliori cavalieri dell'esercito mamelucco, per finire in molti casi tra gli alti gradi del comando o addirittura nella linea di successione del sultano. Ma mette altresì in evidenza una grande quantità di occasioni che offrono il destro di procedere alla conquista della Terrasanta senza versare una goccia di sangue. Salvo poi riservare l'uso della forza - a consolidare la quale dovranno essere la leva obbligatoria e forme di autofinanziamento locali che in quanto tali sollevino da gravami la madrepatria - al mantenimento della pace e dell'ordine, una volta conquistata la regione. Molto importante appare la «laicità» con la quale Fidenzio guarda alla missione del crociato. Il problema è quello dell'efficienza militare e l'essersi votati alla liberazione del Santo Sepolcro non è certo garanzia di affidabilità in questo senso. A Fidenzio non importa alcunché del martirio salvifico del «miles Christi»: «Il trionfo - osserva Evangelisti - è un fatto che si misura concretamente non sull'eroismo, sull'immolarsi, sulla logica del martirio del crociato e della sua mitologia diffusa nelle cronache in Occidente». «Vero cristiano» è colui che sa raggiungere lo scopo, la conquista e il mantenimento della Terrasanta, con una grande flessibilità operativa. «Chi non sa gestire il denaro, il blocco economico, l'effettiva applicazione dell'embargo commerciale (già più volte inutilmente promosso e sanzionato dal Papa), la politica demografica, non è vero crociato, anzi letteralmente nemmeno un "verus Christianus"». Fidenzio, ogni volta che si ipotizza una situazione militare in cui alla resa c'è un'alternativa praticabile, meglio se economica, bolla come «insipiente» il crociato che la rifiuta. E «insipiente» è anche il «pugil Christi» che non sa assumere tempestive decisioni diplomatico-militari. Scrive Evangelisti: «Il martirio è dunque un'extrema ratio che nel Liber non è operativamente contemplata. Solo per senso di appartenenza - per dovere apologetico si direbbe - Fidenzio cita ed esalta il martirio dei frati e di alcuni milites in una situazione in cui non era stato possibile praticare un'alternativa monetaria o militare alla resa: in quest'ultimo caso, avendo dinanzi solo la conversione forzata, essi giustamente la rifiutano scegliendo la morte». Fin qui si potrebbe pensare che questo testo rappresenti un punto di passaggio dalla letteratura che accompagnò la fase alta delle Crociate ai testi della stagione che seguì la definitiva sconfitta. Una trattatistica, quest'ultima, politicamente molto moderna, ma che nei confronti della religione conservava soltanto ciò che era imposto da obblighi lessicali formali. Del tipo di quelli che sarebbe naturale individuare nell'interrelazione tra l'estensore di un testo come il Liber, un vicario, e il committente, il Pontefice. E invece la parte più importante dello studio di Evangelisti è proprio quella in cui, sulla base dell'esame della modificazione del senso di alcune parolechiave («humilitas» come abbiamo visto, ma anche «paupertas», «oboedientia», «caritas», «sobrietas», «sollicitudo»), dimostra come l'opera di Fidenzio da Padova sia imperniata su una elaborazione prettamente francescana e come tale elaborazione abbia inciso profondamente sulle strategie politiche di dominio dei secoli successivi. In polemica con un altro studioso delle Crociate, Ludovico Gatto, che, messo non in gran luce il testo di Fidenzio, aveva prestato maggior attenzione al De recuperatione Terrae Sanctae di quel Pierre Dubois che abbiamo citato all'inizio, Evangelisti sostiene che «la produzione francescana crociata duecentesca patisce di una sottostima per quanto attiene al suo contributo non solo di proposte operative, ma di metodologie, di approcci politici ed economici al problema della riconquista e dell'organizzazione del potere». Ma come dimostrare che l'albero di Fidenzio abbia dato dei frutti? Per trovare proprio uno di qu esti frutti, Evangelisti compie un òdlto di oltre un secolo e mezzo e finisce nell'Europa centrale. Qui il france- scano Giovanni da Capistrano, dopo aver coordinato, su incarico dei papi Nicolò V e Callisto III, una grande operazione inquisitoriale contro gli eretici in Germania e Ungheria, si trasferisce a Belgrado per dar man forte all'esercito del reggente Giovanni d'Ungheria in lotta con i Turchi. Siamo nel 1456 e anche l'impresa di Giovanni da Capistrano, per essere una guerra contro gli infedeli, passerà alla storia come una Crociata. Vittoriosa, questa volta. Attingendo dal resoconto dell'impresa di un compagno d'anni del Capistrano, il francescano Giovanni da Tagliacozzo, Evangelisti dimostra come il modello elaborato da quell'altro francescano alla fine del Duecento trovi applicazione e si dispieghi in tutta la sua potenza. Capistrano è in tutto e per tutto quel «dux» che, ai tempi dell'ultima crociata di Terrasanta, Fidenzio aveva descritto come l'unico che avrebbe potuto guidare l'impresa al successo, ad un duraturo successo. E che, dopo decine d'anni nei quali la parte più intima di quella sua strategia francescana aveva trovato applicazioni in ogni landa del mondo fino ad allora scoperto, aveva portato a compimento proprio il progetto di Fidenzio. Attraverso la cronaca dell'impresa di Capistrano, si può seguire l'impegno del «dux», scrive Evangelisti, «non solo come predicatore e promotore della Crociata che (Capistrano, ndr.) coordinerà personalmente nelle ^111 WF^^J stesse azioni V belliche, ma anche come attento e abile tessitore dei rapporti politici con Giovanni, reggente d'Ungheria». E il tutto sarà coronato da successo proprio perché sarà stato concepito e guidato da un condottiero, un «dux», d'ispirazione fidenziana. Lo si capisce ancora meglio da un particolare: Capistrano si trova a difendere il regno e il reggente d'Ungheria anche dalle insidie dei nobili baroni che prima non partecipano alla crociata contro i turchi salvo poi, dopo la vittoria, reclamare ugualmente i loro diritti. E Capistrano, che aveva portato all'apice il suo potere carismatico «anche attraverso strategie di costruzione e diffusione di una sua "humilitas" chiaramente funzionale alla legittimazione della propria figura dominativa, ma soprattutto al potenziamento del suo ascendente sul "popolo"», fa un passo indietro. E' il suo capolavoro politico. Per aiutare il reggente d'Ungheria a fronteggiare i nobili ed evitare di offrire a questi ultimi un pretesto di ribellione, Capistrano scioglie l'esercito crociato e decide di dare nuova prova di umiltà abbandonando il proprio ruolo di «capitaneus», «rinunciando al suo potere e reinvestendo pubblicamente di tutta la sua autorità Giovanni d'Ungheria». Capistrano, sottolinea Evangelisti, «è costretto a spogliarsi di un potere carismatico-dominativo talmente forte da essere ormai pericolosamente alternativo a quello legittimo». Con il che, però, la sua figura risulta ancor più accresciuta. E la stabilità assicurata. Scopriamo così una tra le più sottili riflessioni sulla conquista e il mantenimento del potere là dove meno ce lo saremmo aspettato, tra quei religiosi dell'ordine francescano ai quali il Santo aveva assegnato la regola del Vangelo per la predicazione itinerante dei valori etici cristiani, la vita in assoluta povertà, il servizio ai sacerdoti e ai fedeli (lo stato di «minorità»). Lì, proprio negli scritti di francescani su imprest di altri francescani, troviamo spiegato come lungo le vie dell'umiltà e di altre virtù caritativo si possa raggiungere il traguardo della politica: il «dominio». A patto che, beninteso, percorsi e traguardo siano quelli di una grande e ispirata politica. Paolo Mieli Le regole: embargo e alleanze vengono prima della guerra e del martirio 150 anni dopo quegli insegnamenti servirono a battere i Turchi in Ungheria ^111 WF^^J V Cavalieri medievali alle Crociate; a sinistra Franco Cardini, critico sulla ripubblicazione della «Storia delle Crociate» di René Grousset; a destra Papa Innocenzo IV