Spike Lee, la rabbia nel canestro di Alessandra Levantesi

Spike Lee, la rabbia nel canestro Spike Lee, la rabbia nel canestro E D'Alò mostra un assaggio della «Gabbianella» LIDO DI VENEZIA. Esiste un cinema che senza moralismi (cinicamente?) si limita a rispecchiare lo stato delle cose; e un cinema etico che (ingenuamente?) dà un apporto per tentare di cambiare lo stato delle cose. Ovvero, ci sono i cupi scenari metropolitani quali, per esempio, li prefigura in «Balletto di pallottole» (Prospettive) il giapponese Shinya Tsukanamoto: dove in ùnmagini di choccante violenza bande giovanili si combattono con una ferocia giustificata - spiega l'autore/attore di «Tetsuo» 1 e 2 - solo dal fatto che «le generazioni dell'era del computer sono ignare di ciò che la morte e il dolore significano realmente». E ci sono invece i ghetti cittadini dei neri e degli emarginati, così come li racconta con inesauribile vis pedagogica Spike Lee: il quale con «He Got Game» (sezione Notti e Stelle) ha ritrovato la forma dei tempi migliori. Il detenuto Jake, che deve scontare ancora grondici anni, viene rilasciato in libertà vigilata per una settimana con una missione speciale: convincere il figlio Jesus, il più bravo giocatore di basket fra gli studenti liceali dell'intera nazione americana, a scegliere delle tante università che gli fanno la corte per averlo quella cara al cuore del Governatore dello Stato; in cambio, gli viene promessa una riduzione della pena. Però l'operazione di persuasione non sarà facile: Jesus odia il padre, non solo per il buon motivo che ha ucciso (sia pur incidentalmente) sua madre, ma perché, insegnandogli a prezzo di un'inflessibile e maniacale disciplina tutto ciò che sa sul basket, si è sempre comportato con lui da prevaricatore. All'inizio una panoramica trascorre dai grattacieli della New York ricca a un degradato campo di basket che si rivela il cortile di un penitenziario. E quel cortile chiuso fra le alte mura del carcere si dimostrerà non tanto diverso dai campetti di Coney Island Brooklyn, dove Jake (lo vediamo in numerosi flashback) allenava Jesus bambino a diventare il più bravo, nella speranza di preparargli un futuro migliore. «He Got Game» è pieno di queste folgoranti sintesi narrative e la colonna sonora, mescolando ai rap dei Public Enemy le suggestioni sinfoniche di Aaron Copland, lo fa a tratti assomigliare a un musical: ma di tipo brechtiano/sociale, con risvolti da melò ben accentuati dall'espressionistica fotografia di Malik Hassan Sayeed. In altri momenti, invece, il film indugia, si dilunga, apre incisi (anche divertenti, come l'umoristico cammeo di John Turturro che impersona un mellifluo allenatore); e se Denzel Washington è un Jake doloroso e coinvolgente, l'inespressivo campione di basket Ray Alien che gli fa da figlio è un antagonista troppo debole. In breve la storia potrebbe ristagnare se a sostenerne la tensione non ci fosse la martellante passione politica e pedagogica di Spike. Che fa il cinema anche per insegnare ai più giovani «Fratelli»: guardate che se vi abbandonate alla delinquenza, alla violenza, alla droga, farete il gioco di chi vi vuole fregare. Studiate, imparate, è l'unica strada per difendervi. Ve l'immaginate un cineasta italiano che lanciasse un messaggio simile? Sarebbe subito considerato come un veltroniano e accusato di essere buonista: per fortuna Lee è americano e si può permettere di parlare di moralità e di probi sentimenti senza paura di venire etichettato. Da noi certe cose è meglio dirle in sordina, magari attraverso un cartone animato: come fa Enzo d'Alò, l'autore del delizioso «La freccia azzurra», che ha presentato qui un promettente assaggio (25 rninuti) di «La gabbianella e ii gatto», una favola sulla tolleranza e la diversità sceneggiata con Umberto Marino dal racconto di Sepùlveda. Alessandra Levantesi

Luoghi citati: New York, Venezia