Siddharta e Domitilla, figli di Peter Pan di Lietta Tornabuoni
Siddharta e Domitilla, figli di Peter Pan «L'albero delle pere» di Francesca Archibugi, con la Golino, è il primo film italiano in concorso Siddharta e Domitilla, figli di Peter Pan E il film di Lelouch è un lungo omaggio alla moglie VENEZIA DAL NOSTRO INVIATO Certi genitori non vogliono diventare adulti, restano ragazzi mai cresciuti, Peter Pan velleitari e confusi anche quando sono madri e padri di figli piccoli magari più maturi e responsabili di loro: Francesca Archibugi, dopo «Verso sera» e «Il grande cocomero», torna a questo tema che le è caro, ai bambini e ragazzini che la interessano appassionatamente, con il primo film italiano in concorso alla Mostra, «L'albero delle pere» («pere» è inteso nel senso di iniezioni di droga). Domitilla, neppure cinque anni, si graffia per caso con una siringa trovata tra gli oggetti di sua madre Valeria Golino, amorosa e distratta, bella e dannata, il cui slogan nell'uscire inquieto di casa è: «Allora, io vado». Siddharta, il fratello adolescente, si allarma, teme che la piccola si sia infettata, ha paura ma non vuole parlarne con la madre per non darle preoccupazione, né vuole parlarne con i padri (il suo, quello della sorellina) Sergio Rubini e Stefano Dionisi, nei quali non ha fiducia: si prende la responsabilità di provvedere agli esami del sangue, di sapere, di trovare un rimedio come fa per tutto nella vita domestica. La morte della madre in uno scontro di automobili aprirà un vuoto immen- so nella piccola famiglia, porterà cambiamento e in certo modo restituirà al ragazzino una libertà leggera della sua età. Siamo alle vacanze di Natale del 1998, e i genitori del film paiono un poco diversamente datati, dislocati a un'epoca anteriore (magari agli Ottanta di «Piso Pisello» di Peter Del Monte), fuori da questo tempo invece così pavidamente ordinato e conformista. Ma Francesca Archibugi sa raccontare come pochi la quotidianità, il linguaggio e i luoghi della gente comune: supermercato, Usi, scuola, l'oscurità domestica dei pomeriggi invernali, le ribellioni filiali repentine ma fiacche («Se non vuoi che cresciamo, perché ci hai fatti?»), l'autoindulgenza paterna («Eravamo così giova¬ ni...»), l'angustia di vite faticose, affaticate sin dall'infanzia. Film di famiglia: «Hasards ou coincidences» (Per caso o per azzardo) di Claude Lelouch, presentato fuori concorso, è un omaggio, una bella occasione drammatica, quasi un monumento offerto dal regista a sua moglie Alessandra Martines, bella e danzatrice di infinita grazia: ma è soprattutto, come sempre, un film di Lelouch. Magari sgangherato, a tratti sconnesso o melenso, ma realizzato con maestria cinematografica e con una gran ricchezza spettacolare: insieme con l'ossessiva presenza della videocamera che registra eventi reali o immaginari e crea essa stessa nuovi eventi, insieme con una storia tragica di perdita degli affetti e di ricostruzione d'una memoria inventata, ci sono i dervisci danzanti di Istanbul, il paesaggio marmoreo delle cave di Carrara, gli orsi polari affamati della baia di Hudson, i tuffatori che ad Acapulco si lanciano da altissime rocce, Venezia come set delle coreografie d'un film, il mare come una tomba liquida, la semplicità d'un campione canadese di hockey, l'amore sconosciuto inseguito attraverso continenti. Compiacimenti turistico-esotici, ma anche cose singolari, divertenti. Lietta Tornabuoni L'autrice racconta come pochi san fare linguaggio e luoghi della gente comune Alessandra Martines in una scena di «Per caso o per azzardo»
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