Influenzarono Picasso

Influenzarono Picasso Influenzarono Picasso Per le avanguardie erano i «negri» B VENEZIA ASTEREBBE quel supporto per sacrifici, mollemente adagiato lungo la Laguna, come un'odalisca bislacca e sbilenca, che un turista distratto in vaporetto potrebbe anche scambiare per un quasi-Moore dedicato a una proto-Peggy Guggenlieim maya. Giureresti che ha già visto, se non copiato, almeno qualche cariatide di Modigliani della collezione Alexandre. Oppure quel Dio K dal nasone e le natiche predominanti, un Ubu Roi mesoamericano. E quel guerriero del periodo tardoclassico, che sembra proprio, con la sua cascata di monili turchesi, che si fanno corpo e pappagorgia, ad entrare in scena direttamente in un'acquaforte picassiana di Saltimbanchi del periodo blu. O, infine, quel graffito Tempio con alta scalinata che è già, sfrontatamente, del puro Klee. Basterebbe: ma non per leggere con occMalini ciechi del Contemporaneo, la straordinaria avventura di una civiltà che ci sfugge, quanto proprio per capire definitivamente, che il Moderno ha scoperto ben poco, che Sora Avanguardia, la pretenziosa, non è che una boriosa protesi del primitivo. Con una lagrima di lacca «povera» quelli scrivevano già una loro formidabile installazione sacra. Bastava un geroglifico di scarafaggio. O un magro daumier, che supera qualsiasi Wienerwerkstatte secessionista. Certo, si sa: Picasso, Apollinaire, Derain, Cendrands, tutti lì, boccaperta, a «sbavare» per una civiltà che l'eurocentrismo narcisista aveva come occultato sotto la sabbia della superbia. E il poeta-etnografo Leiris tornava a raccontar meraviglie. Ma oggi è difficile, per noi, capire che cosa intendessero per «negro». Picasso io ammetteva, citato da Malraux: «Quando Matisse mi ha mostrato la prima testa negra, mi parlò di arte egizia». «Negro» era l'Altro, l'inconoscibile, lo scuro sotto la superficie. E quando Picasso racconta di quelle corse come allucinate entro il puzzolente museo del Trocadero, che gli pareva un mercato delle pulci, ma soprattutto quando Giacometti dialoga con Genet del suo Scriba all'egiziana, si ha davvero l'impressione che essi fossero sconfinati nelle sale centroamericane, senza nemmeno rendersene conto. Ma non era soltanto una questione elegante di rastremare le forme per raggiungere un'essenzialità signorile, «loro, i negri, non erano cubisti!» scherzava Picasso, «tutti i feticci erano armi»: per liberarsi dagli spiriti, «per diventare finalmente indipendenti». Quello che si intuisce guardando questa mostra davvero eccezionale è che i Maya, che avevano inventato la ruota per almanaccare l'astronomia ma non per rotolare le cose, che avevano scoperto l'infinito e lo zero, ma che allo zero davano l'apparenza romanzata di una conchiglia, avevano un'idea completamente diversa dalla nostra centralità condensata. Per loro il centro era un'avventura assiale, vertiginosa e precipitante, che attraversa il quadrilatero del mondo come una vena ombelicale, che trasferisce energie. Marco Vallerà

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