Una riserva segreta per il riscatto

Una riserva segreta per il riscatto Una riserva segreta per il riscatto Forse a dicembre erano stati messi via 10 miliardi DALLA PRIMA PAGINA REGGIO CALABRIA DAL NOSTRO INVIATO Gli interrogativi senza risposta, a questo punto, sono tanti. Come mai, giusto per citare il principale, il maritò dell'ostaggio, Pietro Vavassori, si trovava in Calabria da tre giorni, all'insaputa - sempre stando alle versioni ufficiali - degli inquirenti? Per una volta, anche lo Stato si pone degli interrogativi. «Non ci limitiamo alle apparenze - spiega il pm Alberto Nobili nella questura di Reggio Calabria -, se ci sono stati dei fatti anomali nella liberazione di Alessandra Sgarella li verificheremo. Siamo qui anche per dare un'interpretazione a quanto è accaduto». Lo stesso magistrato dice che non sono stati autorizzati pagamenti di riscatto controllati, come invece è avvenuto nella vicenda Soffiantini. Ma forse uno dei «fatti anomali» che andranno verificati è quello che è accaduto nei primissimi giorni del sequestro, a dicemhre, prima che scattasse il blocco dei beni della famiglia Sgarella-Vavassori. Sembra che in quel periodo il marito della signora rapita abbia avuto il tempo di mettere da parte una cospicua riserva di denaro, intorno ai dieci miliardi di lire, proprio per aggirare il blocco e poter pagare quando i sequestratori avessero fatto le loro richieste. E' quella manovra che è andata in porto l'altra notte? Oppure l'uomo è riuscito a trovare dei canali proprio per ricontattare i rapitori dopo tre mesi di silenzio, e magari ha promesso un pagamento futuro? «Non ho pagato alcun riscatto per la liberazione di mia moglie», ha ripetuto lo stesso Vavassori ieri, mentre riabbracciava Alessandra davanti alle telecamere assiepate in questura. E poi ha aggiunto: «Rivediamoci tra una settimana, e forse potrò dirvi di più». Che cosa, se ufficialmente non ci sono retroscena da svelare? L'indagine sul sequestro Sgarella per molti versi comincia adesso, anche se da giugno sono in carcere cinque persone che - in base ad intercettazioni ambientali, telefoniche e molte altre prove - secondo gli inquirenti hanno certamente a che fare con questo sequestro. Si tratta del «clan Lumbaca» che però, alla luce delle ipotesi che gli investigatori avanzano ora, potrebbe essere stato solo un anello della catena. Molte cose ha da dire Alessandra Sgarella che ieri mattina è stata ascoltata solo per pochi minuti dal magistrato e dai poliziotti che conducono le indagini. La donna ha rivelato di aver cambiato tre prigioni. La prima, subito dopo il rapimento, si trova probabilmente in Lombardia, e lì è rimasta per circa un mese. Poi è stata trasferita in Calabria^ e qui è stata nascosta in altri due covi. «Non sono stata trattata male», ha detto ieri ai giornalisti, mentre agli inquirenti ha spiegato di essere stata tenuta non in una casa ma in ambienti comunque abbastanza confortevoli, dove ad esempio poteva stare tranquillamente in piedi e camminare un po'. «Probabilmente sono in grado di riconoscere i luoghi», ha aggiunto Alessandra. Per questo, dopo la verbalizzazione dei primi interrogatori, tornerà presto in Calabria, per i sopralluoghi. Dopo alcuni mesi dall'arrivo al Sud, a primavera inoltrata è stata trasferita una seconda volta nella prigione dove è rimasta fino all'altra sera e dove, il 4 giugno, ha compiuto quarant'anni. Dai primi elementi forniti, il luogo del primo covo calabrese potrebbe essere sul versante^onico della regione, e questo per l'individuazione dei banditi è un punto non secondario. «Ogni volta che entravano per parlare con me io venivOincappucciata, oppure loro stessi avevano il volto coperto», ha raccontato ancora la Sgarella. I carcerieri si presentavano spesso, e le facevano discorsi che sembravano mirati a metterla contro la famiglia, a sollecitare quella «sindrome di Stoccolma» che doveva portarla a stare più dalla parte di chi la teneva segregata che da quella dei suoi cari che tentavano di liberarla. Minacce di morte o mutilazioni, invece, non le sarebbero mai state rivolte in maniera seria. Tra le let¬ tere inviate dai rapitori, il 15 maggio ne arrivò una in cui si ipotizzavano violenze sull'ostaggio, e la richiesta del riscatto era di 30 mibardi; ma pochi giorni dopo, il 26 maggio, ne giunse un'altra che correggeva il tiro, nella quale la stéssa Sgarella faceva riferimento a quella del 15: «Non dovete considerare il suo contenuto, ma dovete basarvi solo su questa mia ultima». Assieme ai dubbi sul pagamento del riscatto, ieri sono circolate anche delle cifre sulla sua eventuale entità, che variano dai quattro ai sette miliardi, ma in queste ore correre dietro alle voci non aiuta granché a capire quello che è successo. La trattativa che era in corso in primavera con gli annunci economici cifrati pubblicati sul «Corriere della Sera» si era attestata mtorno a quattro miliardi. Ma ciò non vuol dire che - se davvero negli ultimi tempi il «tira e molla» tra banditi e familiari era ricominciato in segreto, e se davvero un riscatto è stato pagato - la somma sia quella. Se invece la versione ufficiale è quella giusta e non c'è stato alcun passaggio di denaro (nemmeno promesso), allora l'ipotesi è quella della liberazione dovuta alla pressione mvestigativa che i rapitori non avrebbero più retto. Perché le indagini, in questi nove mesi, non si sono mai fermate, e hanno fornito molti elementi agli inquirenti. Non ultimo, quello di una presenza della criminalità organizzata del versante ionico nella gestione del sequestro. Dopo l'arresto degli uommi del «clan Lumbaca», visto che le persone cadute in trappola non hanno ceduto di un millimetro nonostante le prove a loro carico, si è tentato anche con alcuni colloqui investigativi - espressamente previsti dalla legge - con personaggi della 'ndrangheta che anche dal carcere possono sapere molte cose su ciò che accade nelle loro terre. Da qui sarebbero arrivate indicazioni su personaggi e clan da tenere sotto controllo, che potrebbero aver prodotto la svolta. E' ovvio che magistrati e poliziotti sanno molte cose che vengono tenute segrete nel tentativo di arrivare al più presto all'arresto dei responsabili del sequestro. Tuttavia le indiscrezioni che filtrano parlano di un'organizzazione ben più ampia e attrezzata di quella a base familiare dei Lumbaca. E se davvero la mente del rapimento è sul versante ionico della Locride (per questo è importante sapere se le prigioni erano lì), allora non si può escludere una presenza della 'ndrangheta locale. Da lì è stato gestito il sequestro Casella (gli Stralicio di San Luca) e almeno una pane di quello Ghidini. Altre «famiglie» che controllano la zona sono i Barbaro di Piatì, i Palamara di Africo e i Pipicella di Natile. Se fosse vera l'ipotesi della liberazione dovuta alla «pressione investigativa» scaturita dalle «confidenze» raccolte dentro e fuori le carceri, l'ordine di rilasciare Alessandra Sgarella potrebbe essere venuto da lì. Ma tutto questo lo diranno le indagini e le rivelazioni future, con l'ostaggio finalmente a casa dopo che ieri mattina, sulla terrazza della questura di Reggio, s'è goduta una colazione a base di cornetti, yogurt e latte freddo con vista sullo stretto: tutt'altra immagine della Calabria di quella degli ultinù nove mesi. Giovanni Bianconi Ma non si esclude anche l'ipotesi di una trattativa per il pagamento dopo la liberazione. Le indagini puntano sul versante jonico della Locride Un'altra pista individua la svolta nel lavoro investigativo dopo confidenze raccolte all'interno del carcere «Ero incappucciata quando parlavo con loro» Ma non avrebbe avuto minacce di mutilazioni Tre le prigioni, la prima in Lombardia Alessandra: forse posso riconoscere i luoghi Alessandra Sgarella al suo arrivo nella casa della famiglia a Domodossola abbraccia a lungo il padre