In 300 per dire un'atroce verità di Cesare Martinetti

In 300 per dire un'atroce verità In 300 per dire un'atroce verità Tra i volontari che informavano iparenti GINEVRA DAL NOSTRO INVIATO Ecco il direttore dell'aeroporto. Racconta che sono un centinaio le persone assistite da un altro centinaio di volontari. Le hanno separate in piccoli gruppi, nelle salette dello Skycom, il centro degli affari dell'aeroporto. Come se si potesse dividere il dolore per renderlo più accettabile. A mezzogiorno, dice, sono stati riuniti tutti in un salone, ha parlato lo psicologo: «Ecco, vedete, non siete soli...», ma ci vuol ben altro. E' un grande esercizio collettivo di psicologia quello che si sta svolgendo all'aeroporto di Ginevra: la più grande tragedia aerea di Swissair scopre e destabilizza uno dei-rièrvi istitùteionali dell'identità nazionale, la sua compagnia aerea, mitica come gli orologi. Agli svizzeri oggi tocca esibire qualcos'altro, l'organizzazione del soccorso ai parenti delle vittime. Qui all'aeroporto nessuno dà notizie sull'incidente, tutti raccontano di come funziona la macchina di sollievo del dolore, raccontano del piano cantonale contro i disastri, spiegano che da due anni funziona il «Cric» (Centro ricerca informazioni catastrofi), una macchina umana di 300 persone, quasi tutti volontari, che ha il compito d'informare nel modo più indolore possibile i parenti delle vittime. Funziona da due anni, finora aveva fatto solo esercitazioni. Ieri i suoi medici e i suoi volontari hanno dovuto fare sul serio. L'aereo doveva arrivare alle 9,30, ma già alle 8 c'erano cinque persone, mezz'ora dopo ce n'erano cinquanta, poco dopo un centinaio. Il monitor diceva delayed, in ritardo. Al bancone Swissport raccontavano un'altra bugia, ben poco rassicurante e psicologicamente piuttosto incauta: «E' disperso». In realtà molti dei parenti che arrivavano già avevano saputo dalla radio che l'aereo era precipitato. Prima che il «Cric» entrasse in azione con la sua organizzazione della cautela e dell'informazione, testimoni hanno visto le lacrime di una coppia di mezza età divorate dalle telecamere e gli occhi sbarrati di un bambino che aspettava il suo papà. Hanno visto la faccia di una giovane donna che aspettava il fidanzato. Facce svizzere, francesi, americane. Bianche e scure, stravolte dalla smorfia del dolore, dell'incertezza, dello smarrimento. Schiacciate e deformate dal peso della morte. Che l'aereo fosse precipitato, non «in ritardo» e nemmeno «disperso», è stato quasi subito chiaro a tutti. Ma ancora non si sapeva se tutti erano morti, o se qualcuno s'era salvato. E nemmeno chi fosse davvero salito sull'aereo. Le leggi americane (il volo era in condominio tra Swissair e Delta Airlines) non consentono la divulgazione dei nomi delle vittime fino a che non è sicura l'identificazione e fino a quando non sono stati avvertiti i parenti. L'aeroporto veniva così blindato, le notizie da Halifax somministrate con il contagocce secondo la metodologia del «Cric». Sono arrivati gli psicologi ed i medici (una trentina) ed i volontari (un centinaio) cui toccava anche rispondere al telefono. Centinaia di chiamate agli apparecchi dell'unità di crisi installata quasi subito. E risposte in francese, inglese, tedesco, italiano. Parole caute scandite secondo l'approccio all'«informazione delle catastrofi» studiata dagli psicologi del «Cric» e che uno di loro ha così raccontato: «Alla domanda brutale dell'interlocutore si risponde con un'altra domanda, con un tono di voce morbido, il più possibile rassicurante». Esempio. Arriva ima telefonata che chiede': il signor Dupont è vivo? Risposta da manuale: chi è per lei il signor Dupont? Insomma ci si avvicina alla somministrazione della notizia per piccoli passi e a seconda del grado di parentela tra la vittima e chi ne chiede notizie. Si riesce? «E' difficile, molto difficile», risponde il volontario. Quasi subito sono arrivati l'imam, il rabbino, un prete cattolico e un pastore protestante. Anche questo secondo il piano: Ginevra (come Zurigo) è un aeroporto di transito, si vola Swissair per sicurezza e tradizione. C'era da aspettarsi - come è stato - vittime e parenti di ogni nazionalità e fede. Ha raccontato il dottor Froidevaux: «In questi casi prima i parenti sperano fino all'ultimo che il proprio caro si sia salvato. Poi vogliono sapere come è avvenuto l'incidente, se è stato improvviso o no, se le vittime hanno sofferto, come e quanto...». Un esercizio di comunicazione difficile: «C'è chi vuole essere avvicinato, chi invece vuole rimanere solo. Ci sono donne, madri, mogli. Ci sono, là dentro, alcuni bambini». Alle 12,30 tutti i volontari che avevano il compito di assistere i parenti sono stati sostituiti da altri: «Erano sfiniti» ha raccontato Froidevaux. Intanto in Swissair si calibravano le notizie, anche ai giornalisti. Niente sulle cause dell'incidente: «Prima leggiamo le scatole nere». Niente sui nomi: «Non si può». Si sapeva soltanto che c'erano anche due «bebé». Solo a metà pomeriggio il portavoce della compagnia JeanClaude Donzel fa l'elenco delle vittime per nazionalità: 136 sono americani, 6 inglesi, 28 svizzeri, 30 francesi, un arabo, 3 tedeschi, 1 jugoslavo, 1 afghano, 2 greci, 1 iraniano, 1 spagnolo, 3 italiani, 1 russo, 1 dell'isola di Saint-Kitts. Duecentoquindici in tutto. Più 14 membri dell'equipaggio, tutti svizzeri eccetto un americano. Dei tre italiani in serata la Farnesina ha dato due nomi: Silvia Sequi e Nino Sanna, entrambi residenti in Svizzera. Il terzo, Maurizio Fiossi, residente in provincia di Milano, era in transito e prenotato sul primo volto Swissair per Roma. A metà pomeriggio è apparso sugli schermi il presidente della Sair, il gruppo che comprende la compagnia aerea, Philip Brugisser, che da Zurigo ha raccontato come sono andate le cose: il pilota che segnala fumo in cabina dopo un'ora e 40 dal decollo, il tentativo di tornare su Boston, l'altro tentativo di atterrare ad Halifax: «Bastavano 10 minuti in più...». Brugisser ha raccontato, e la sua voce a questo punto s'è spezzata per l'emozione, l'ultimo grido del pilota: «Pan, pan, pan». A sera, finalmente tutto era chiaro, anche per i parenti segregati nella terapia dell'accettazione. I passeggeri sono stati trovati con il giubbotto di salvataggio, non è stato un crash improvviso, non è stata una morte indolore. E' stata un'agonia durata almeno 10 minuti. Come si racconta questa cosa ai parenti, dottor Froidevaux? «E' difficile, è difficile. Alcuni di loro non potranno nemmeno vedere il corpo del loro caro, se è troppo straziato...». Oggi parte un aereo per Halifax con i parenti: per ogni coppia un accompagnatore. Ed è l'ultimo atto della terapia. Cesare Martinetti

Persone citate: Brugisser, Donzel, Dupont, Maurizio Fiossi, Nino Sanna, Philip Brugisser, Silvia Sequi

Luoghi citati: Boston, Ginevra, Milano, Roma, Svizzera, Zurigo