Il silenzio della PARTENZA

Il silenzio della PARTENZA biblioteca di bordo, La fuga da casa di un vecchio professore nel racconto dell'irlandese Banville Il silenzio della PARTENZA XEL Vander, professore di ermeneutica alla Ucla di Arcady, stava per andarsene da casa. Per fuggire di corsa. E ciò lo faceva sentire audace, addirittura pericoloso. Lo faceva sentire giovane. Ma giovane on era. E non correva via, ma se ne andava zoppicando, per via di quella sua gamba morta e di quel suo occhio cieco. Si levò alle cinque nel chiarore spettrale della pioggia. Magda emise un miagolio lamentoso e ruotò su se stessa con un lento sussulto oceanico. Era incredibile che una personcina tanto piccola si traducesse nel letto in una presenza così formidabile. Nei primi tempi, quando stavano insieme, aveva l'abitudine di balzargli addosso con le braccia e le gambe a tenaglia, inerpicandosi sul suo corpo massiccio e dandosi da fare come una scimmia, annusandolo, rannicchiandoglisi contro e mordicchiandolo, quasi cercasse con ansia un qualche bocconcino prelibato nascosto in qualche piega della sua carne. Poi, la mattina, con il suo completino sobrio e i suoi tacchetti pratici, tornava a essere l'insegnante impeccabile, che beveva placida il suo succo di frutta e la sua tazzina ristretta della miglior arabica, prima di piazzarsi nella sua Volkswagen rugginosa per andare a trascorrere un'altra giornata d'assedio nella battaglia sterile ma mai disperata con i suoi piccoli bastardi di Arcady High, come soleva definirli con voce lamentosa. Avrebbe dovuto andare in pensione quest'anno. Rimase fermo a guardarla dall'alto, non senza una grossa tenerezza, e le tirò le coperte sulla vecchia spalla nuda e tutta maculata. Un rampollo del Nord Europa C'era un'aria tesa nella casa, quasi essa fosse risentita per quell'intrusione nei suoi ritmi furtivi a un'ora tanto mattiniera. Traversò con le calze ai piedi il soggiorno, la gamba morta che batteva pesante sui listelli di acero del pavimento. Aleggiavano nella stanza spettri d'ombra, immobili e attenti. Poteva sentire la pioggia che batteva sull'assito esterno all'aperto, scendendo dritta come fili nell'alba senza vento. Il caffè non era ancora pronto allorché la pioggia cessò di colpo, simile a un interruttore che si spenga all'improvviso, come accadeva sempre in quella zona. Non s'era mai abituato al clima di quel tratto di costa, a quei discreti rovesci mattutini seguiti da interminabili giornate di azzurro. Aveva l'impressione che quello non fosse un vero e proprio clima: lui era un rampollo delle pianure nordiche europee, grigie e basse, con tempeste ghiacciate, pioggia che cadeva di sghembo e cieli colmi di nubi tumultuose che rotolavano senza tregua verso Oriente. Prese la tazza fumante e la portò nel cantuccio riservato alla prima colazione, lasciandosi cadere sulla panchetta, con quella sua gamba rigida che rollava come un ciocco. Il giardino fradicio, liscio e scintillante, aveva l'aria sconcertata di chi si riprende dopo una zuffa. Ci sarebbe stata bruma nella Baia fino a metà mattina: lunghe matasse limpide, immobili e bianche, inghirlandate sulle impalcature dei ponti finché il sole non avesse acquistato abbastanza vigore da disperderle con la sua fiamma. Sostò un momento in bagno e, quando he uscì, si rase e si annodò la cravatta. Magda era lì, con la sua vecchia vestaglia grigia, seduta nell'angolino dove prima s'era lasciato cadere lui, lo sguardo rivolto verso il giardino. Per un attimo, sembrò quasi non registrarne l'immagine. Avrebbe potuto benissimo essere un'ombra, tant'era immobile e quieta. Quando lo sentì, lei volse il capo e gli lanciò un'occhiata strana, al tempo stesso ironica, divertita e fredda. Lui si chiese se i capelli di lei fossero ormai del tutto grigi. Li tingeva ormai da tanto tempo, che proprio non riusciva a ricordarlo. Li portava ancora con quel taglio a paggetto che usava farsi quand'era più giovane. Quando la gente diceva di lei che aveva una vaga somiglianza con Louise Brooks; mentre adesso faceva pensare a Lotte Lenya in età avanzata. Provò un improvviso moto di compassione, una sorta di brusco cedimento, e avvertì il desiderio di farlesi vicino e di toccarla. Assunse invece un'aria accigliata e finse di star cercando qualche cosa. «Tutto pronto?» gli chiese. Che strano! Benché fosse lui ad essersi guadagnato la reputazione di padroneggiare perfettamente la lingua, era lei che aveva assimilato alla perfezione un certo modo di parlare. Parli come un nativo, le diceva la gente, prima che nativo diventasse un vocabolo che nessuno aveva il coraggio di continuare a usare. Secondo lui, tutto dipendeva dal fatto che lei non nutriva la sua stessa sfiducia nel linguaggio. Insegnando ai bambini, si era liberata di ogni forma di autocoscienza, imparando da loro con la massima naturalezza i ritmi della parlata casalinga e di quella della strada. Quando lui cercava di usare quello che a suo parere era una forma gergale di moda, lei gli rideva addosso, coprendosi gli occhi con la mano e scrollando la testa. «Oh, Axie», gli diceva. «Tonto che non sei altro!». Le parole, così come lei le usava, erano simili ai pezzi di un puzzle trasparente e meraviglioso che lei si deliziava ad assemblare nell'aria sotto i suoi stessi occhi, con la destrezza incurante dei maghi da palcoscenico. Tutto pronto per il viaggio «Sì», rispose lui, con quel suo sorriso a un occhio solo. «Tutto pronto». Il tassista era la caricatura di un russo, ruvido e taciturno. Prese i bagagli, portandoseli curvo e goffo. In quei giorni, gli Ivan erano da tutte le parti: guidavano taxi, gestivano lavanderie automatiche, facevano le guardie del corpo, avendo perduto la battaglia per emergere, troppo intenti com'erano a vincere la guerra per non andare a fondo. Axel Vander aveva sempre trovato arduo introdursi in quei veicoli bassi e allungati, che fasciavano soltanto a metà il suo corpo massiccio e lo spingevano all'indietro sul sedile attraverso la portiera, costringendolo ad afferrarsi la gamba insensibile con ambedue le mani e a trascinarsela dentro. Il russo rimase immobile in attesa, seduto rigido come un uomo di pietra, lo sguardo impassibile fisso in avanti, le orecchie pelose, le spalle immense e pendule. Poi ingranò la marcia - Vander non aveva mai capito come si guidassero le auto americane - il motore ruggì e il taxi partì staccandosi dal cordolo del marciapiedi, come una bestia intrappolata. Vander si guardò alle spalle e vide la moglie sulla veranda che si faceva sempre più piccola, a mano a mano che l'auto si allontanava. Lei non si mosse. Malgrado i successi della sua assimilazione, per lei tutti e due restavano dei rifugiati in una terra straniera, con il viso distolto nel modo più deciso da un passato inenarrabile. La sua famiglia un padre, due fratelli, una sorella tanto amata - era andata distrutta nella catastrofe europea. Vander ricordò la prima volta che aveva accettato di andare a letto con lui. Al termine del loro accoppiamento frenetico e comprensibilmente ridicolo - lei era una vedova di mez¬ z'età, lui un quasi sessantenne lei gli si era curvata sopra nella luce brunastra di quella camera scassata di motel e aveva poggiato la punta delle dita sulle palpebre molli del suo occhio cieco, mormorando con un triste sorriso: Io sola sono sopravvissuta, per poterti raccontare.... Il taxi sbatté sulla rampa dell'autostrada e prese a inerpicarsi sul lungo pendìo del grande ponte, arrancando a fatica sui sessanta, con le gomme che sfrigolavano e il motore che ansimava come un condizionatore d'aria difettoso. Poi si trovarono davanti la città, che si stendeva pacata su e giù per le basse collinette, con quei suoi irti edifici piatti e informi a quell'ora pur sempre mattutina, e un minuscolo aeroplano che si librava su un alto banco di smog blu-petrolio. Un'auto bianca immensa guidata da un fragile giovane nero con una camiciola sbrindellata sterzò all'improvviso verso la loro corsia, costringendo il russo a usare il pedale dei freni e a lanciare una qualche imprecazione, mentre Axel Vander, proiettato in avanti, batteva dolorosamente con il ginocchio buono contro il portacenere fissato sul retro del sedile di fronte. Aveva il terrore di un incidente di traffico, con tutte le sue conseguenze insopportabili e assurde: dolore e calore, fumo e rumore... Proprio allora il russo, che era riuscito a barcamenarsi e a guadagnarsi un proprio spazio, si spostò con uno strappo violento sulla corsia di sinistra, si affiancò all'auto bianca, abbassò il finestrino e scagliò all'indirizzo del condu- cente dell'altra vettura una frase che aveva tutta l'aria di un'espressione oscena. Il ragazzo nero, con il braccio scarno poggiato sulla portiera aperta e le lunghe dita delicate che battevano il tempo per seguire la musica rintronante dallo stereo, si girò con un ampio sorriso, sfoggiando un ventaglio di denti candidi e incredibilmente larghi. Poi si raschiò poderosamente la gola e scaracchiò un viscoso grumo verdastro che planò schioccante sul finestrino, tirato su dal russo appena in tempo. Infine ritrasse la testa egizia, emise uno sghignazzo che a loro non fu concesso di sentire ma solo di vedere, schiacciò il pedale dell'acceleratore e li seminò allegramente con uno sbuffo nerastro di fumo di scarico. Si sentì stanco all'improvviso Superata la discesa del ponte, girarono verso l'aeroporto. Il traffico era già pessimo e lui di colpo si sentì stanco. Anche la sua mente era stanca. Era un periodo in cui scopriva di essere sempre più stanco, quando doveva pensare. Aveva l'impressione che dipendesse dalla sua età: se tutto in lui era soggetto al logorìo, perché il cervello doveva esserne risparmiato? Eppure, per esausto che fosse, non poteva smetterla di restare attivo, nemmeno per un istante. Di notte, a tratti, era sopraffatto dal pensiero tremendo che la mente potesse sopravvivere alla morte del corpo. Restare intrappolato in tal modo, sia pure solo per un istante... ah! Si costrinse a guardare la strada, la scena fuggevole di stazioni di sei-vizio, di motel da quattro soldi e di arbusti scuri. E ancora una volta rimase colpito, come gli ' accadeva sovente, dalla stranezza di trovarsi lì, di essere da qualche parte in quella zona, all'interno di quelle apparenti unicità. Il russo era il russo, con quelle sue lunghe braccia e quelle sue orecchie irsute; il giovane nero era il giovane nero che gli aveva sputato contro; e persino Axel Vander era quell'Axel Vander che stava puntando verso l'aeroporto, verso l'Europa, verso la fuga. Erano, tutti costoro, qualcosa di più dei loro puri attributi? Era lui stesso - sì, proprio lui - qualcosa di più di una congerie mobile di impulsi, di paure, di fantasie casuali? No! Era la risposta cui lui aveva dedicato l'intera sua vita, alla faccia dei sentimentalisti che cercavano di opporre resistenza. Eppure, come giustificare la convinzione invincibile della sopravvivenza di un io nel tumulto del mondo, di un gheriglio lì resistente a qualsiasi tempesta capace di Wgj scuotere i rami dell'alWm bero? Ecco l'aeroporto, nella luminosità scheggiata del mattino, con la gente che s'agita nel trascinarsi i bagagli e i taxi come bracchi che si fiutano l'un l'altro sotto la coda e il negro col berretto sporgente che dice Buon giorno, signore!, con una strana enfasi sulla parola iniziale della frase. Axel Vander pagò la tariffa del taxi e si girò con quel suo passo da gondoliere verso il suo io ombroso che si rifletteva sul vetro affumicato delle porte. Che all'improvviso presero coscienza di sé e gli si spalancarono di fronte con un ansito caldo. Volare! Volare! John Banville Traduzione di Ruggero Bianchi // tassista era la caricatura di un russo, ruvido e taciturno. Prese i bagagli, portandoseli curvo e goffo. In quei giorni, gli Ivan erano da tutte le parti: guidavano taxi, gestivano lavanderie automatiche Stava per andarsene. Per fuggire di corsa. E ciò lo faceva sentire audace, addirittura pericoloso. Quasi di nuovo giovane. Ma giovane non era. E non correva via, masè ne andava zoppicando // tassista era la caricatura di un russo, ruvido e taciturno. Prese i bagagli, portandoseli curvo e goffo. In quei giorni, gli Ivan erano da tutte le parti: guidavano taxi, gestivano lavanderie automatiche guardarefuggevolzio, di mdi arbusvolta rim' accadevnezza diqualche all'interunicità. con quequelle sgiovanero che ge persinl'Axel Vtando vl'Europatutti codei lorostesso - sa di piùdi impucasuali?lui avevvitamenoppre, cdumlì rtWgj sWm bldtnctcrBcslpmicato provvissé e gli te con uVolarTrad Qui accanto John Banville: George Steiner lo considera il migliore narratore inglese al di qua dell'Atlantico

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