la battaglia degli alpeggi

la battaglia degli alpeggi I segreti di una sfida cruciale per la cultura valdostana e il mondo contadino la battaglia degli alpeggi Nelle valli dove duellano le mucche AVISE BBENE sì, non c'è scritto da nessuna parte ma questo è il paese simbolo di una grande, storica battaglia. Combattuta, e non da uomini, nella vasta conca di Vertosan, che si apre sopra l'agglomerato di case a picco sulla Dora, sulla statale da Aosta verso il Bianco. Avise è un borgo talmente bello da sembrare finto, tutto aggruppato intorno ai due castelli, uno del XII e uno del XV secolo. Le guide della Valle d'Aosta spiegano gli aspetti storici, compreso quello abbastanza curioso che l'eleganza del maniero più recente, con le finestre a bifore agilissime, è diventata nel Cinquecento il modello per varie case signorili della valle. Ma sulla battaglia, tacciono. Bisogna andare a un piccolo museo di St-Nicolas, o bussare a qualche porta di esperti, per trovare la cronaca di quel che accade sulla «comba» in un giorno di festa del 1858, quando un seminarista povero e geniale salì per assistere a un evento che gli fece scrivere il suo miglior poema, in patois valdostano. Jean Baptiste Cerlogne aveva 32 anni, faticava sul latino e scriveva poesia in francese ma soprattutto nell'amatissimo francoprovenziale della sua valle, di cui sarebbe diventato il maestro e il sistematore. Salì alla conca di Vertosan perché «di vatze se vat fere euna groussa bataille», come scrisse nel suo «capolavoro», il componimento che ha per titolo appunto La Bataille di vatse a Vertosan. E ci lasciò, oltre che un bel testo letterario, anche la prima documentazione storica dettagliata fin nei minimi particolari di quella che ancor oggi è una vera spina dorsale della cultura valligiana, la «Bataille de Reines», lo scontro fra le «regine» degli alpeggi, il momento cruciale nella vita dell'allevatore e del mondo contadino. Per chi non ci sia mai incappato, l'idea di due mucche in battaglia può sembrare balzana. Proprio le icone della più pacifica ruminante pigrizia, non solo fisica ma anche mentale, lente e tardigrade, sguardo idiota e margherita fra i denti, insomma proprio le mucche? Sì, e non si limitano a «combattere»: danzano anche, con quei loro quintali di peso, leggere e aeree, con scarti repentini, brevi ed eleganti rincorse, code come timoni e corna mulinanti per colpire l'avversaria, farla arretrare e desistere, insomma costringerla ad «arrendersi». La «Bataille de Reines», che si disputa in Valle d'Aosta (ma anche in Svizzera, nel Vallese) e in misura minore in Savoia e nelle Valli di Lanzo in Piemonte, è uno spettacolo di grazia ed energia che non ha nulla da invidiare, tanto per intenderci, alla corrida. Con la differenza che qui non muore nessuno, e salvo casi eccezionali (di abrasioni) non scorre una goccia di sangue. E' un duello «matriarcale», come osserva Bernard Clos, vicepresidente dell'associazione «Amis de batailles de reines» e speaker ufficiale delle manifestazioni, basato sulla pulsione a difendere il territorio che è particolarmente forte nella bovina nera valdostana, la razza tipica in questa zona e nel Vallese svizzero. E poi è «matriarcale» anche in senso proprio, perché le regine che si combattono sono rigorosamente incinte. Il che detto così suona male (ma come, le poverette scendono nell'arena invece di preparasi al parto ruminando dolcemente?), ma invece ha una profonda ragion d'essere. Perché la regina dell'alpeggio è - dev'essere - una vacca «normale» da tutti i punti di vista: partorisce e produce latte. Solo che è più forte e più decisa delle altre, è il capo-branco che ha conquistato la sua posizione duellando spontaneamente sui pascoli. Se non fosse così, sarebbe un «mostro», una «specie di toro» come ci spiega Clos, allevato unicamente per la battaglia: e i «mostri» non sono graditi. Per questo, dal '58, le battaglie sono organizzate con criteri severi. C'è un calendario, che prevede in tutta la valle una tornata primaverile, una estiva (pare soprattutto a beneficio dei turisti, sono le battaglie meno belle) e una autunnale, quella da intenditori, che culmina con la finale regionale ad Aosta, la terza domenica di ottobre. E qui il pubblico è quello «vero», di sempre, dell'Ottocento e di molto prima. Perché la bellicosa razza «nera valdostana» esiste almeno dall'epoca romana: a Martigny è stato trovata una testa scolpita di toro con caratteristiche simili ai suoi discendenti di oggi. E combattimenti sono raffigurati nelle incisioni rupestri del Neolitico, con tanto di pastore che assiste alzando le braccia al cielo. Dall'età della pietra ai giochi dei bambini, il tema della «grande battaglia» torna come una cerimonia centrale nella cultura montanara. A Bernard Clos, mentre racconta nella sua casa di Jovengan, brillano gli occhi. Ci mostra i giocattoli del nonno, suoi, dei suoi figli quand'erano piccoli: tronchetti di legno su un'estremità dei quali sono state scavate le corna. Li si fa cozzare, testa contro testa anzi, come scriveva Cerlogne, «come contre come, et fron contre lo fron», fino a che uno si ribalta. E l'altro vince. Nella «bataille» vera, invece, dopo uno scontro anche lungo, una delle due «regine» si volta e s'allontana. Rapidamente, peraltro. E' il momento più pericoloso, perché la vincitrice, nell'ebbrezza del trionfo, tende a colpire anco¬ ra, a dare il «colpo di grazia» per essere sicura che la rivale non rinnoverà l'attacco. Non è un colpo fisicamente pericoloso, ma proprio perché arriva su un avversario che ha ormai rinunciato a difendersi, può rappresentare un trauma psicologico. La regina sconfitta è un'autorità destituita, ha problemi di stress. E allora si assiste a una scena che può apparire eccessivamente sentimentale: il proprietario della perdente fa un balzo verso la vincitrice, che è comunque affiancata anche dal suo padrone. Ma non per protestare. Vuole fermarla, vuole evitare alla sua regina l'ultima onta. Sono tipe di carattere, le regine. E il loro rapporto coll'allevatore è di un'intimità totale. Vanno alla sfida accarezzate e confortate, con l'uomo che quasi appoggia il capo sull'orecchio dell'animale e parla, fa sentire la sua presenza: perché, altro aspetto di lotta «matriarcale», la duellante non va eccitata, ma «tranquillizzata». Combatterà bene se avrà coscienza di difendere il «suo» territorio, di giocare in casa. E del suo territorio fa parte la voce dell'uomo; come lei fa parte della vita di lui. «Qui i soldati sono sempre partiti per la guerra abbracciando la madre, il padre e la regina», ci ricorda Clos. Poi infondevano nelle generazioni delle regine il ricordo della loro storie, attraverso i nomi. Ancor oggi si chiamano spesso con nomi di città: c'è Paris, c'è Milan, ma c'è anche Novara e Marengo. Già, perché mai Marengo se non per le battaglie (queste, sanguinose e non simboliche) del Risorgimento? Il nome passa spesso di madre in figlia. E attraverso i secoli arriva alle «batailles» di oggi, che ci raccontano la storia di un popolo, di una cultura e anche di alcuni vecchi trucchi contadini. Costruire una «regina» è come costruire un atleta, con in più la necessità di partire da una discendenza di altissimo lignaggio, e poi curare attraverso l'aumentazione che lo sviluppo muscolare sia perfetto. Ci vuole moltissima cura e un po' di denaro. Le corna sono importantissime, e devono anche essere «belle». Così l'allevatore le modella con una raspa nelle notti di luna crescente, fino a che assumono una forma perfetta. Poi c'è il problema «psicologico», ma qui non ci sono allenamenti possibili. La voglia di battersi è quella che è. Qualcuno prova a volte con un bel litrozzo di vino zuccherato, che è la forma di creatina a dimensione di bataille, testimoniata anche dal solilo abate Cerlogne, ma considerata inutile. In Svizzera, osserva Clos, hanno istituito da cinque anni un vero «antidoping», anche se non hanno mai trovato niente. In Valle d'Aosta si va con i sistemi tradizionali. Nulla deve turbare la danza delle regine, i loro affondi, e i colpi che fanno la gioia degli intenditori: c'è la stoccata, ovvero il colpo «de puent», che può esere risolutivo; l'aggancio con le corna dietro la nuca, dell'avversaria; il «ritorno» della testa dal basso verso l'alto che ricorda il colpo segreto di Cyrano di Bergerac (almeno nella ricostruzione di Umberto Eco, verificare sull'Isola del giorno prima). Perché la forza sta nel collo, vera elsa di questa spada vivente che pesa qualche quintale ma per il resto è quasi un fioretto. A proposito di fioretti: il cantore di Vertosan di lì a poco divenne abate, restò poverissimo, scrisse un importantissimo dizionario del patois franco-provenzale e anche la grammatica. Un santo del linguaggio. E la bataille de reines, tradizionalmente organizzata in modo spontaneo sugli alpeggi dagli allevatori e più in basso da proprietari di bettole (per incrementare la clientela), riuscì anche a diventare «antifascista». Fu a Chàtillon nel 1924, quando già il regime la ostacolava perché troppo «patois» e poco italiana. Venne organizzato il primo torneo a pa gamento che si ricordi, con un'im mensa folla equamente divisa tra spettatori che avevano comprato il biglietto e portoghesi arrampicati su alberi e rocce disponibili Una beffa al regime in nome del «libero mercato». Mario Baudino Uno spettacolo di grazia e energia che nulla invidia alla corrida Ma qui non si muore e quasi mai c'è sangue Le mucche che si combattono sono incinte, non c'è sangue ma solo cornate, la sconfitta si volta e s'allontana. Sotto, il centro di Aosta