Una cura per il pianeta malato di Mario Deaglio

Una cura per il pianeta malato Una cura per il pianeta malato Nuove regole e riforme trasparenti contro l'anarchia ■ N estrema sintesi, il GiappoI ne ha vissuto, fino ai primi 9 Anni Novanta, il più gigantesco «boom» edilizio della storia, come è naturale in un Paese che si arricchisce ma è privo di spazio e nel quale, per di più, gran parte dei terreni edificabili vengono, in omaggio alle tradizioni, rigorosamente riservati all'agricoltura. I prezzi di terreni e costruzioni andarono quindi alle stelle e le banche finanziarono l'espansione edilizia facendosi rilasciare ipoteche come garanzia sulle nuove costruzioni. Poi, come sempre prima o poi succede, il boom si fermò, i prezzi cominciarono a scendere, le banche non riuscirono a recuperare i crediti e si trovarono tra le mani garanzie il cui valore si era fortemente ridotto. Si tratta di una sequenza di avvenimenti ben conosciuta, in un certo senso quasi normale. Del tutto anormale, invece, è stata la paura di «perdere la fac eia» del mondo finanziario giapponese che nascose ostinatamente le perdite, contribuendo così ad aggravarle. Solo ora si ha un'idea delle dimensioni di quel disastro finanziario: le «sofferenze» delle banche sono pari ad almeno un milione di miliardi di lire, il sistema è tecnicamente in bancarotta e la Borsa di Tokyo è scesa del 60 per cento dai suoi livelli massimi. La soluzione ci sarebbe: mandare a casa i banchieri incapaci, lasciar fallire le banche inefficienti e crearne di nuove così come è successo nel corso dell'ultimo secolo in numerosi Paesi. Eppure l'intreccio politica-affari fa sì che il Parlamento esiti ad approvare una legge che sconvol¬ gerebbe l'assestato sistema dei rapporti di potere. Nel frattempo, decine di milioni di giapponesi, temendo per il proprio tenore di vita, limitano i consumi e l'economia riesce a galleggiare, con sempre maggiore fatica, solo vendendo all'estero i suoi prodotti. Da motore di sviluppo, il Giappone è divenuto così veicolo di crisi e il fatto è grave perché l'economia giapponese contribuisce per circa un quarto alla produzione complessiva del pianeta, ossia all'incirca tanto quanto Germania, Francia e Italia messe assieme. Le «tigri» zoppe La crisi nipponica si intreccia con quella delle «tigri» asiatiche, principali fornitori, clienti e concorrenti dei giapponesi. In Indonesia, in Malesia e in altri Paesi dallo straordinario sviluppo era finita in ogni caso l'era del lavoro e del capitale a buon mercato e si andava verso un rallentamento; questo rallentamento divenne una frenata terribilmente brusca nell'estate del 1997 grazie all'azione amplificatrice dei mercati finanziari. H Fondo Monetario applicò ai Paesi in crisi una medicina troppo dura che, soprattutto nel caso dell'Indonesia, ha messo in ginocchio il malato invece di curarlo. Qusto Paese grande come mezza Europa un anno fa era sull'orlo di un benessere diffuso e progettava, forse con un pizzico di megalomania, di dotarsi di un'industria automobilistica e di un'industria aeronautica; oggi, invece, è sull'orlo della fame. Dal Giappone e dalle «tigri», la crisi risale verso la Cina, che proprio nel luglio del 1997 acquisisce la fiorentissima colonia britannica di Hong Kong. A Hong Kong, le cose cominciano subito ad andare male per i fortissimi legami di quella Borsa con tutta la finanza asiatica. La Cina, poi, impegnatasi a entrare a pieno titolo nell'economia globalizzata di mercato, scopre di dover licenziare, nelle proprie aziende pubbliche, decine di milioni di dipendenti, in eccesso per l'inefficienza dei metodi produttivi; per farlo ha bisogno di un forte sviluppo, ma proprio allora lo sviluppo comincia a rallentare. E qui si inserisce il tocco stregato della fata cattiva; una stagione di piogge quasi senza precedenti devasta campagne e fabbriche e colpisce quasi un cinese su quattro. Per conseguenza, le previsioni di crescita vengono ancora ritoccate all'ingiù e la situazione si fa precaria. A questo punto, le difficoltà diventano veramente mondiali: la domanda asiatica di materie prime, dal riso al petrolio, si contrae fortemente. I prezzi di questi prodotti di base crollano. Il potere d'acquisto di un barile di greggio torna sotto ai livelli Cartolina per Mosca Caro zio Boris, pensa alle Borse, che vanno a picco senza risorse. Viene l'inverno. Trova un governo, caro zio Boris: è tutto in forse. precedenti la guerra del Kippur del 1973; ferro e rame, lana e grano perdono terreno, privando un'ampia gamma di Paesi, dall'Argentina all'Australia, dal Sud Africa al Brasile, di introiti indispensabili. L'entità delle perdite appare evidente nel corso dell'estate, quando la crisi percorre le «periferie» produttive del pianeta, stroncando monete e appiattendo quotazioni in Borsa. Il rublo azzerato Il Paese più colpito è però la Russia di Eltsin, impegnata in un difficile, caotico, dissennatamente rapido processo di conversione dell'economia in senso capitalistico. Il ridursi degli incassi dalla vendita del petrolio e del gas naturale (che rappresentano circa la metà di tutte le esportazioni russe) è l'ultimo colpo a un'economia che fatica a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e risulta in preda a un sempre più accentuato disordine sociale. I russi conducono malissimo la loro battaglia in difesa del rublo; al termine dei cinque mesi di governo Kirienko, la loro moneta non esiste praticamente più. In Russia, la crisi economica si salda con la crisi degli equilibri politici mondiali perché i russi dispongono di un gran numero di armi strategiche e perché, pur senza usare le armi, una migrazione di russi affamati avrebbe un effetto dirompente sulle economie dell'Europa Occidentale. Infine, ultimo tocco di bacchetta magica della fata cattiva: dopo otto anni di crescita eccezionale, l'economia degli Stati Uniti comincia a perdere qualche colpo. Ed è questo rallentamento, forse più della crisi russa, alla base delle cadute di Wall Street. Così il presidente Clinton, il quale, al di là dei suoi casi personali venuti in evidenza negli ultimi mesi, si è dimostrato un uomo politico piuttosto avveduto sulla scena internazionale, a Mosca ripete un cliché del tutto fuori luogo: sostegno morale, niente soldi, e un invito a procedere sulla via delle privatizzazioni. Il colosso ex sovietico non potrà invece fare a meno di imponenti linee di credito e dovrà, molto prima delle privatizzazioni, ristabilire l'autorità e la presenza dello Stato, a cominciare dal pagamento delle imposte. Il rischio globale Appare evidente che, se non la Russia, le ex tigri, il Sud America e gli altri Paesi in difficoltà non verranno dotati di strumenti finanziari sufficienti quanto meno a compensare la caduta dei prezzi delle materie prime, questi Paesi si rivolgeranno contro il mercato globale, ritenendolo un diabolico strumento degli occidentali per sfruttarli meglio. Il premier malese Mahathir lo va dicendo ormai da un anno e lo scontento antioccidentale è un importante terreno di coltura per il terrorismo che, proprio in questa estate, ha dato tristissime dimostrazioni delle proprie capacità. L'Europa, che in tutte queste vicende è rimasta eccezionalmente riparata grazie anche al progetto di moneta unica che molti ritenevano assurdo, dovrà probabilmente prendere l'iniziativa per evitare che l'economia mondiale si frantumi. Sarà probabilmente necessaria una conferenza mondiale, del tipo di quella del 1944 che diede vita al sistema di Bretton Woods; questa volta, però, l'obiettivo non sarà la fissità dei cambi bensì la fissità delle regole dei mercati, i quali hanno dato finora una ben scarsa prova di sé. Maggiore severità Ci vorrà maggiore trasparenza nelle Borse (il che significa maggiore severità nei confronti di imprese e governi) e forse qualche piccola limitazione alla libertà di movimento dei capitali. Senza un minimo di regole al posto dell'anarchia, lo splendido progetto dell'economia globale rischia un rapido tramonto. Mario Deaglio

Persone citate: Clinton, Eltsin, Kirienko, Mahathir, Woods