Dalla Resistenza al Duemila: la Mostra racconta, mai come quest'anno, il nostro Paese. Con oltre venti film

Dalla Resistenza al Duemila: la Mostra racconta, mai come quest'anno, il nostro Paese. Con oltre venti film Dalla Resistenza al Duemila: la Mostra racconta, mai come quest'anno, il nostro Paese. Con oltre venti film QUATTRO italiani su diciannove film in concorso, quattro italiani su dieci film fuori concorso, complessivamente oltre venti opere italiane nel programma della 55a Mostra di Venezia: è troppo. Sarà un imprevisto segno di ricchezza e abbondanza del nostro cinema, sarà per far contento il vicepresidente del Consiglio Veltroni, sarà una combinazione fortuita, sarà un'euforia magari malriposta, saranno le amicizie, sarà che ad alcuni cineasti non si riesce a dire di no: certo una presenza nazionale così invadente a un festival internazionale rivaleggia con gli sciovinismi più sfacciati, provinciali e criticati dei francesi a Cannes. Sono naturalmente film di stile e d'importanza industrialcommerciale differenti, di autori di diverse generazioni: e, per caso oppure no, in buona parte raccontano storie della Storia d'Italia, ripercorrono un itinerario del Paese attraverso i decenni recenti. In «Tu ridi» di Paolo e Vittorio Taviani, ispirato a novelle di Pirandello, c'è l'oppressione esistenziale degli Anni Trenta fascisti, ma anche la disperazione di scoprirsi troppo somiglianti ai prepotenti più odiosi (a esempio un sovrintendente teatrale, Luca Zingaretti vestito e pettinato come un sosia di Galeazzo Ciano e insieme di Silvio Berlusconi); c'è la ferocia siciliana contemporanea, così dissimile dalla brutalità mitizzante di cento anni fa, nella vicenda del ragazzino sequestrato, ucciso, disciolto nell'acido come vendetta contro suo padre mafioso divenuto informatore di polizia e magistratura. L'autunno del 1943 consente a «I piccoli maestri» di Daniele Luchetti, ispirato al romanzo di Luigi Meneghello, di vedere la Resistenza in chiave antieroica ed etico-civile, attraverso un piccolo gruppo di giovanissimi partigiani che erano poi lo scrittore e i suoi amici, guerrieri incompetenti ma combattenti coraggiosi. Gli Anni Cinquanta-Sessanta della grande migrazione interna dal Sud al Nord, dalla Sicilia a Torino, so- no rivisitati in «Così ridevano» di Gianni Amelio, insieme con l'ambizione di progredire impadronendosi della cultura, con quel sogno di crescere e migliorare che forse risulterà vittorioso, o forse perdente. Ancora gli Anni Cinquanta, la seconda metà del decennio, in un paese piccolo del Sud, sono il tempo dell'idealismo altruista, delle concrete iniziative sociali, della conquista femminile d'identità, in «Del perduto amore» di Mi¬ chele Placido, storia del fascino ammirato e amoroso esercitato da una ardita ragazza rossa, militante comunista, su un seminarista quattordicenne in crisi di vocazione. Gli Anni Settanta con i loro esiliati politici a Parigi, rifugiatisi in Francia per sottrarsi alle accuse di terrorismo, sono in «Vite in sospeso» di Marco Turco l'antecedente d'un conflitto tra due fratelli, l'invito a fare i conti con un passato troppo sbrigativamente rimosso e archiviato. Gli Anni Settanta della droga, della fine dei modi tradizionali del comunicare, della modernizzazione in provincia e della proliferazione delle radio «libere», sono l'epoca di «Radiofreccia» di Luciano Ligabue. All'inizio degli Anni Ottanta e al moltiplicarsi della criminalità quotidiana si rifa «L'odore della notte» di Claudio Caligari, ispirato a «Le notti di "Arancia meccanica"» di Dido Sacchettoni e ai fatti di cronaca nera che videro protagonista a Torino e a Roma una banda di ladri e aggressori operante contro la gente famosa dei quartieri ricchi, composta da alcuni poliziotti e guidata dal poliziotto Agostino Panetta: in cinque anni 600 rapine, 7 stupri, 279 vittime. Il passato prossimo degli Anni Ottanta è pure quello che ha dato origine ai genitori velleitari, confusi e immaturi de «L'albero delle pere» di Francesca Archibugi, che hanno chiamato Siddharta e Domitilla i figli trascurati risultanti a volte più adulti di loro; ed è anche quello dell'arrivo in Italia (e della lotta quotidiana per la sopravvivenza) degli immigrati polacchi protagonisti de «La ballata dei lavavetri» di Peter Del Monte, ispirato al romanzo di Edoardo Albinati. Anni Novanta, alla fine. Il dramma dell'immigrazione è impersonato da due ragazzi albanesi in «Ospiti» di Matteo Garrone; il dramma della vita carceraria vissuta dai potenti arrestati di Tangentopoli, politici e ladri, ricchi e borghesi, è la materia di «Onorevoli detenuti» di Giancarlo Pianta; le pornodegenerazioni su Internet e le involuzioni del sesso virtuale, immateriale, verbale, sono raccontate in «Viol@» di Donatella Maiorca. Recupero dell'impegno sociale, ritorno alla realtà, neoneo-neorealismo, cinema di regime? Magari no, ma l'attenzione collettiva alle storie della Storia d'Italia è una novità interessante, nei troppi film italiani del festival di Venezia che giovedì s'inaugura con le tragedie della seconda guerra mondiale rievocate da Spielberg e con la consegna dei Leoni d'oro alla carriera ai fantasmi del divismo e dell'impegno politico, alla Star e all'Uomo di Marmo, alla sessantaquattrenne Sofia Loren assente e al settantaduenne Andrzej Wajda. Lietta Tornabuoni Dalla vita ai tempi del fascismo alle grandi migrazioni verso il Nord Dalla violenza urbana alle radio libere Dagli amori Internet alla confusione dei genitori moderni Stili, autori, pesi commerciali diversi: ma il fenomeno resta una novità interessante Qui a fianco: Isabella Ferrari in «Vite in sospeso» di Marco Turco Foto grande: Enrico Lo Verso in «Così ridevano» di Gianni Amelio In basso a sinistra: Stefania Rocca in una scena di «Viol@»