SPAGNOL Nel gran mare dei libri

SPAGNOL Nel gran mare dei libri i saggi di bordo Com'è cambiata l'editoria dal dopoguerra ad oggi: i ricordi d'un protagonista SPAGNOL Nel gran mare dei libri LERICI DAL NOSTRO INVIATO Una volta Mario Spagnol, vice critico teatrale per l'Avariti!, rischiò di non fare uscire il giornale. Scrisse con molto impegno la sua recensione, impiegando forse un po' più del solito, poi la infilò come sempre nel cilindro della posta pneumatica, mise il cilindro nel tubo e se ne andò a casa. Ovviamente, era tardissimo. Dall'altro capo del «palazzo dei giornali», in piazza Cavour a Milano, un tipografo aspettava quel testo per comporlo velocemente sulla linotype, metterlo in pagina e completare finalmente l'edizione del mattino successivo. Ma il giovane Spagnol aveva commesso un errore, il cilindro anziché venir spinto nella giusta direzione era stato risucchiato in quella opposta, e per un pelo il giornale non uscì. Non c'erano cellulari per inseguire il critico sulla strada di casa o di chissà dove, nella notte milanese. C'era solo l'antica saggezza del tipografo che rimediò alla meglio, spostando colonnine di piombo e mettendo una pubblicità redazionale, quel che in gergo si chiama un bel «riempitivo». Mario Spagnol non dette comunque l'addio al giornalismo e al teatro per un motivo così contingente. Ma di lì a poco si accorse che fare il critico la sera e il redattore di casa editrice per tutto il giorno era un po' troppo, visto che si stava oltretutto sposando. E poi, il teatro in Italia era «frustrante». «In realtà il vero spettacolo, il vero tramite spirituale con la società italiana, il nutrimento è stato il melodramma. Il nostro teatro ha avuto una funzione finché è stato d'elite, poi si è perso, nonostante i grandi attori, alcuni, che però sono rimasti casi isolati». Molto tempo dopo quell'addio avrebbe, da editore, pubblicato un libro bello e fortunato d'uno di quei grandi attori, e cioè Un grande avvenire dietro alle spalle di Vittorio Gassman. Molto tempo dopo, del resto, si sarebbe reso conto di ciò che aveva intuito fin dall'inizio, seguendo la sua inclinazione più vera: e cioè che l'editoria «è una specie di teatro». «Il mestiere dell'editore può essere paragonato per certi versi a quello dell'impresario teatrale», ci dice nella sua bella casa di Lerici aperta sul golfo e sul castello genovese, nel paese natale dove tutto è cominciato grazie a un altro lericino ed editore, Valentino Bompiani. Spagnol era appena tornato dalla Germania, dove aveva studiato filosofia ma aveva perso ogni interesse per l'insegnamento. Bompiani, che stava cercando di rilanciare la sua casa editrice in un momento difficile, dopo i fasti degli Anni Quaranta, aveva bisogno di un consulente per le ope- re in lingua tedesca. E il consulente venne assunto, nel 1955. Sono passati quarantatre anni; quarantatre anni d'editoria, che hanno fatto del giovanissimo redattore di allora non solo un editore in proprio ma il capo del gruppo Longanesi, che attraverso i suoi marchi rappresenta il maggior polo editoriale italiano programmaticamente privo di attività parallele: né giornali, né tantomeno televisioni, né «grandi opere» e sistemi rateali né catene di librerie, neppure (salvo il caso dei «supertascabili» fatti in pool con altri editori) distribuzione in edicola. Solo libri per chi vende libri, librerie e supermercati. Come dire, il libro nella sua «purezza» assoluta, una cosa che in Italia si pensava non potesse, dal punto di vista economico, tenersi in piedi da sola. Invece Spagnol ha ce l'ha fatta, e anzi ha in qualche modo portato una rivoluzione fra gli editori italiani, quando attraverso la Longanesi ha acquisito una galassia di piccole case editrici (Guanda, Saiani, Corbaccio, Ponte alle Grazie e, in partecipazione, Neri Pozza, più la creazione dei tascabili Tea con l'Utet) senza ridurle a marchi ma anzi esaltandone le «specificità» e sempre rilanciandole. Ha pubblicato best seller e libri raffinatissimi, ha fatto mercato e, come si dice, «cultura». E soprattutto prima di mettersi in proprio è riuscito ad; attraversare quasi tutta l'editoria italiana, escludendo solo le case dove comunque, dice con un sorriso, «non sarebbe mai andato». Da Bompiani alla Feltrinelli, poi alla Mondadori, infine a'ia Rizzoli prima occupandosi della controllata Sansoni, a Firenze, e poi come direttore generale. Senza mai rimpiangere il teatro? «Mah, del teatro le ho detto. Invece devo ammettere che, se non avessi fatto l'editore, ed è il solo mestiere che so fare, mi sarebbe piaciuto essere un antiquario». Sono attività piutto¬ sto diverse l'una dall'altra. «Sì, ma tutte e tre tentano di dare un prezzo alle cose dello spirito. Che è un'impresa disperante, e può riuscire più che altro a folate, di tanto in tanto. Però è questo che mi ha sempre interessato: la funzione mediatrice tra la nobiltà a volte segreta dello spirito e il frastuono del mercato». Una polarità che per molto tempo ha puzzato di zolfo, e che ancora adesso può far arricciare molti nasi virtuosi. «Guardi, in Italia si è sempre data un'importanza eccessiva agli editori, perché sembravano assumersi l'incarico che in altri Paesi è normalmente assolto dalla scuola, dall'Università. Quando ho cominciato io, ovviamente, c'era il mito dell'Einaudi. Ora dico: si può anche pensare di fare cultura, ma sempre di una funzione mediatrice si tratta, magari importando dall'estero o suscitando energie nascoste. L'editore è un mediatore e non un creatore». Quindi lei non crede alle case editrici «di linea», ai programmi culturali, al «messaggio»? «La linea è difficile da mantenere. Beninteso si può fare se si ha alle spalle un mecenate, e va detto che l'editore italiano di libri è spesso stato il fiore all'occhiello di un'impresa le cui vere fonti di profitto erano altre. Pensi a che che cosa fu la Rizzoli: le sue piccole Bur grigie, le edizioni economiche dei classici che hanno fatto epoca, a volte andavano bene, ma molto spesso intasavano i magazzini». Ma non tutti hanno avuto il «mecenate». «No, c'è un'altra categoria parallela: quella dei rampolli. Figlioli di grandi industriali spesso tenuti sotto tutela da un bravo amministratore». Lei però ha incontrato anche editori e basta, da cui ha imparato. «Valentino Bompiani è stato ad esempio per me il modello dell'artigiano, che si diverte a mettere le mani dappertutto, che farebbe tutto da sé. Giangiacomo Feltrinelli mi ha insegnato a delegare le responsabilità. Quando sono arrivato nella sua casa editrice ero un giovanotto, eppure mi affidò l'Universale Economica perché la rifacessi. Certo, poi dovevo convincerlo che le mie scelte potevano essere giuste, ma la responsabilità era mia. Una cosa impensabile altrove». E Arnoldo Mondadori? «Due cose: intanto le qualità umane e la fermezza. E il rispetto per gli autori. Lui sapeva trattare con molto garbo anche quelli passati di moda, che ormai non avevano più quel gran mercato. Magari un Salvator Gotta ospite d'onore agli anniversari che si celebravano in casa editrice. Con lui, inoltre, ho imparato che cosa vuol dire lavorare su grandi dimensioni, insomma l'organizzazione aziendale. E fare i conti, sempre; i conti su ogni singolo libro. Nelle mie esperienze successive ho dovuto battermi perché ogni volume avesse una sua via tracciata verso il profitto. Che può non arrivare, beninteso, ma deve essere previsto entro certe condizioni». Parla di profitto. E la cultura? «Se ci sono i mezzi...». Forse vuol giocare a mostrarsi un po' cinico, da «impresario teatrale» o da attore? Lei ha fatto libri bellissimi e importanti, da Zeri a Terzani, da Julien Green a Suskynd, da Ende a Gaardar, libri raffinati e libri popolari. Pubblica una vigorosa saggistica storico-politica, ha un'attenzione particolare per la storia dell'arte. E nel suo gruppo ha una casa editrice elegante e di successo come la Guanda. Nell'insieme non c'è «tendenza», questo sì. Ma lei non crede agli editori di tendenza, vero? «All'estero non esiste, che so, una tendenza Simon & Schuster. Diciamo che ci sono soglie di gusto». Quindi non ha mai stampato libri che la «disgustavano» profondamente ma che pensava avrebbero avuto un mercato? «Se pubblico un autore devo crederci. Magari può non essere particolarmente interessante per me, dico dal punto di vista personale, ma devo credere che sia importante per una fascia di lettori». Ma allora qual è la ricetta, se esiste, perché un editore ce la faccia, vinca la sfida del mercato? «Innanzi tutto una certa modestia. Mai mettere se stesso o la casa editrice davanti agli autori: è la lezione di Arnoldo Mondadori. Prima di tutto ci sono "loro". Poi ci vuole tenacia, e naturalmente una buona dose di fortuna». Vuol dire che i grossi colpi arrivano per caso? «Non del tutto. Il caso va aiutato. Prendiamo Wilbur Smith». Che è lo scrittore sudafricano da lei lanciato in Italia. Appena arrivato in Longanesi. «Era l'estate del '79, avevo già firmato il contratto con la Longanesi, che era stata acquistata da Luciano Mauri e Alfredo Curdo. Ed era in condizioni disperate. Mauri mi aveva chiesto di dirigerla, risanarla e poi diventarne socio. Avevo accettato anche perché alla Rizzoli sentivo strani scricchiolii. Ero capo della divisione libri, e mi accorgevo che le ragioni del libro erano assolutamente secondarie, ma anche economicamente indifferenti... Giravano strani personaggi». Stava per scoppiare lo scandalo P2, che travolse la proprietà della casa editrice. E lei decise di mettersi in proprio. «Ma studiando il catalogo Longanesi, mi accorsi che non c'era rimasto niente. In quel momento stampavano manuali, alcuni anche di successo, ne ricordo uno sui pannelli solari». Sta facendo dell'ironia? «No, è la verità. Così dissi a mia moglie, che doveva accompagnare in Inghilterra per un corso nostro figlio Luigi: dai un'occhiata in libreria, guarda che cosa stanno vendendo». Vendevano Wilbur Smith? «Sì, e il buffo è che agli italiani non hnportava nulla. Sembrano cose dì un secolo fa, eppure a quel tempo l'attenzione al mercato straniero era molto relativa. Ancora alla fine degli Anni 70 quando spuntava un best seller americano gli editori sbuffavano con un po' di diffidenza: il solito romanzone commerciale». Lei invece non sbuffò. «No, prendemmo subito il libro che avremmo lanciato col titolo Come il mare e fu un enorme successo. Pensi che Smith era già stato pubblicato da Mondadori e Garzanti, ma senza esiti. Ci costò pochissimo». Subito nacque la leggenda. Si diceva che forse Wilbur Smith non esisteva, che i romanzi li faceva scrivere lei a anonimi collaboratori, che Wilbur Smith era Mario Spagnol in uno dei suoi più riusciti travestimenti. «Il bello è che io lo facevo anche venire in Italia». Ma non lo mostrava con tutta la convinzione del caso... Dica la verità, la leggenda la divertiva. Mario Spagnol non nega. In fondo, era il vecchio critico teatrale che tornava in superficie. Per divertimento, e non è stato il solo caso, nel gioco delle personalità e dei mestieri «scartati». Un'altra volta venne fuori, quasi come un Deus ex machina, anche il terzo mestiere possibile dell'editore, e cioè l'antiquario. O anche questa è una leggenda? Non lo è, sorride Spagnol. «Fu quando mi venne proposto di rilevare il 30 per cento della Lon- ganesi. Dovevo trovare i soldi, però. Così organizzai un'asta di disegni antichi che avevo collezionato fino ad allora». Magari pagandoli pochissimo, da buon antiquario? Nessuna risposta, l'editore lascia planare uno sguardo ironico verso il mare di Lerici, dove è cominciata la sua avventura in quel mondo di «mecenati e rampolli» ma anche di talenti e forse di geni. Perché è mi mestiere difficile, il suo? «Ora fare profitti con i libri è più facile di quando ho incominciato. Indubbiamente si è allargato il pubblico... Ma io ho anche avuto fortuna, non solo con gli autori. Per esempio ho avuto sempre accanto a me uno specialista come Guglielmo Tognetti, che ha fatto le mie stesse esperienze. Credo che se sono riuscito a fare quel che ho fatto, è perché c'era con me un grande collaboratore. Anche se i profitti, nel campo dei libri, sono poca cosa rispetto allo sforzo che comportano. Un produttore di bulloni riderebbe di noi se desse un'occhiata ai nostri conti». Eppure... «Eppure noi ci divertiamo molto di più». Sempre? Quali sono i peggiori vizi degli autori? «E' ovvio, il credersi al centro di tutto». Ma lei ha detto che lo sono davvero, che devono esserlo. Prima viene l'autore, poi l'editore. «Al centro del centro. Fino a ritenersi un'eccezione. Le faccio un esempio: calanti scrittori di romanzi proclamano di leggere solo i classici? E allora, dico, perché mai ritengono che qualcuno debba leggere loro? Ma il narcisismo dell'autore è inevitabile. Ne ho visto di grandi, come Pasolini, cadere in preda al più totale sconforto nel cuore della Buchmesse». La Fiera del libro di Francoforte, la più importante manifestazione europea. E il motivo è ovvio: là dentro, tra milioni di titoli, il singolo scrittore può sentirsi infinitamente piccolo. «E nessuno bada a lui». Vede che alla fine è sempre l'editore ad avere l'ultima parola, ad avere il «potere»? «No, questo no. Non c'è conflitto d'interessi tra me e l'autore. E' vero che l'offerta di manoscritti supera di gran lunga la domanda, ma una volta che decido di pubblicare siamo sulla stessa barca. I nostri interessi sono identici». Lo saranno ancora per molto? La tecnologia informatica promette meraviglie, annuncia tomi elettronici in cui possono materializzarsi tutti i libri del mondo, comunicazioni sempre più veloci, computer come biblioteche. «In questo campo, dove viviamo sempre di riporto, è meglio non essere pionieri. E poi guardi, all'Abi di Chicago, e cioè alla fiera americana degli editori, l'anno scorso si è per così dire festeggiato proprio il gran ritorno alla carta stampata». Lei non prevede mutamenti importanti nei prossimi anni? «Non so, direi di no. Altri se ne occuperanno». Un'ultima cosa: ci siamo proiettati del futuro, abbiamo parlato del passato, molto meno del presente. Che giudizio dà, lei che ne è uno dei protagonisti, dell'editoria italiana? Ci è entrato quando aveva 24 anni, è stata la sua vita. Che immagine le ha lasciato? «E' diventata più professionale. Si sono persi camniin facendo i mecenati e i ramponi». E i fiori all'occhiello? «Diciamo che anche le grandi case editrici, sotto il fiore, cominciano a prendere in considerazione il frutto». Mario Baudino «Il mio mestimi dare un prezzo alle cose dello spirito. Ipericoli veri? Mecenati e rampolli» «Feltrinelli mi ha insegnato a delegare; Mondadori a fare i conti e a rispettare gli autori» Qul accanto Mario Spagnol; sotto Glangiacomo Feltrinelli; in basso Arnoldo Mondadori IM 1