Parigi, il mito cambia quartiere di Aldo Cazzullo

Parigi, il mito cambia quartiere REPORTAGE Parigi, il mito cambia quartiere Belleville e Marais spodestano la tradizione UNA CAPITALE CHI CAMBIA PARIGI DAL NOSTRO INVIATO Che dire al turista che a Montmartre cerca l'ombra di Picasso e incontra caricaturisti di strada e spacciatori di croste? Che si inoltra nel Quartiere Latino come in un'arca di cultura e trova un grande barbecue all'aperto, specialità souvlaki? Che a Pigalle insegue la trasgressione e deve districarsi tra i polverosi lustrini delle ballerine del Moulin Rouge e la gomorra postmoderna degli show dal vivo? Che alla brasserie Lipp è accolto da camerieri scortesissimi, e al Beaubourg da poliziotti al contrario sorridenti che però lo informano che il Centre Pompidou è chiuso per lavori fino al 2000? Di cambiare città? No. Forse di girare altri quartieri, o semplicemente l'angolo. Alla ricerca della nuova Parigi e dei miti che la «ville maternelle», la Città-Madre di Balzac, genera di continuo. Algerini, armeni, ebrei, kanaki, ghanesi, portoghesi convivono in armonia non solo grazie alla maglia blu (e agli emolumenti) della Nazionale campione del mondo, ma anche nell'unico quartiere della capitale che, dopo la caduta di Montmartre, ancora pare un villaggio. Lo chiamavano Belleville per ironizzare sulla sua fauna umana, e infatti qui agivano nel '700 il bandito Cartouche e nell'800 gli anarchici che, come Emile Henry, attentavano alla vita degli operosi borghesi, cui assistevano dall'alto. La sommità della collina di Belleville è infatti otto metri più alta di Montmartre; le case fatiscenti che la soffocavano sono state abbattute e al loro posto è sorto un parco, ancora percorso da vie lastricate e da vecchie insegne, scheletri di una città passata. Il panorama delle cupole e delle torri di Parigi è straordinario e non c'è un solo venditore di (brutte) copie di Modigliani e patate fritte. In compenso, le auto indugiano al verde, nei bar i videogame non hanno rimpiazzato biliardi e flipper e il vecchio che suona l'armonica non passerà a chiedervi una ricompensa. Attorno alle «Lumières de Belle ville», il ristorante gestito da ebrei marocchini (monumentali cuscus e introvabili piatti berberi, come la trippa insaporita dal cumino), sono raccolte in pochi metri due sinago ghe, una moschea, un tempio evan gelico e una chiesa cattolica; e al mercato di fronte si vendono mous saka, spaghetti, bacalhau, tajine di agnello, involtini primavera (la maggior parte dei cinesi di Parigi vive nel quartiere) e ovviamente paté. Più che a Barbès e alla Goutte d'Or, i quartieri che i diseredati di Zola hanno ceduto a africani e ara bi, dove la durezza dell'immigra zione resta viva e cruda, più che nelle Cité della periferia Est, dove immigrati e francesi si scontrano nelle piazze e nelle urne (gli uni votano comunista, gli altri Le Pen), è qui a Belleville che vive la nuova Francia meticcia. Man mano che dal boulevard si sale verso il parco, il crogiolo di lingue, tuniche, odori non scompare ma si stempera, il mélange razziale schiarisce (o colora) le pelli, affila i tratti, ingentilisce gli accenti, i palazzi diventano casette e la metropoli villaggio. Qui immigrati di seconda generazione convivono con anziane signore nate e vissute nel quartiere, che si chiamano quasi tutte Danielle e Marie-France e vedono di rado le loro nipotine Jessica e Mélanie scese in città. I segni della miseria passata restano, il bagno pubblico è ancora aperto a chi non ne ha uno privato, i bulli di quartiere girano appunto con il pit-bull, più temibile (e visibile) del coltello, i murales e una mano di vernice non cancella- no la mestizia degli Hlm - i palazzi dell'edilizia pubblica - di rue de Couronne, e gli affreschi del bistrot più antico, «Le Zéphyr», sono poca cosa in confronto a quelli della Coupole a Montparnasse. Ma gli orti e i roseti che si aprono tra le casette di rue de Ménilmontant, le vetrine multicolori delle pasticcerie simbolo della placida Francia di provincia, i narghilè da cui i clienti del café el Jazine aspirano i profumi delle terre d'origine spiegano perché nel XX arrondissement si vanno spostando molte famiglie della borghesia intellettuale, sulle orme dello scrittore e del personaggio grazie a cui il quartiere diventerà forse mito letterario, Daniel Pennac e il signor Malaussène. Per il momento la mente e il cuore della capitale, la fucina della cultura e del divertimento hanno traslocato dal Quartiere Latino al Marais. Tra Les Halles e la Bastiglia è il borgo degli intellettuali e degli antiquari, degli scrittori e dei librai, degli psicanalisti e dei loro ricchi e tormentati pazienti. Un tempo palude, poi residenza dei nobili che lasciarono splendidi palazzi secenteschi prima di trasferirsi a Versailles e abbandonare il quartiere all'oblio e alla decadenza, ora qui vivono ebrei e architetti, omosessuali e politici, e qui vengono i parigini e i turisti più accorti alla ricercaceli nuove mode e nuovi modi. Un po' ruvidi quelli dei gestori del «Bar sans nom», affollatissimo nonostante una margarita costi 17 mila lire: nei tre piani del locale non c'è una sedia uguale all'altra, ma vecchie poltrone sfondate, divani Anni Cinquanta, muri scuri di graffiti e opere di arte concettuale di Olivier Lannaud. A cento metri i rabbini con le barbe, i boccoli e il cappello nero fanno la coda per il panino con il falafel, e qui i gay si danno appuntamento nei disco-bar e nella loro libreria, con sezioni dedicate a Marcel Proust e a Martina Navratilova. Più in là, verso rue Elzévir, c'è lo show-room di Alice Alianca, la designer che ha ridise¬ gnato anche i lettini per i bimbi; la Mostra del feticcio, aperta fino al 9 settembre; il museo della serratura; la boutique di arte e artigianato africani della «Csao», Compagnia del Senegal e dell'Africa occidentale. Di fronte allo splendido museo Picasso, artisti contemporanei con la vocazione all'anagramma hanno occupato un palazzo di sei piani e l'hanno ribattezzato «Icassop»: un contro-museo pieno di murales, tele astratte, riproduzioni di Léger e bottiglie di birra ovviamente vuote. Avete una tesi politica da sostenere o un sillogismo da dimostrare? Anziché sabre pateticamente su una sedia allo Speakers' corner di Londra, al café des Phares di piazza della Bastiglia, ai confini del Ma rais, potrete parlarne davanti a un pubblico competente e al professor Marc Sautet, inventore del caffè filosofico che oscura la fama del caffè psicanalitico, cento metri più in là, in place des Vosges, dove ogni giovedì si tengono sedute di gruppo. All'uscita, rilassati e affamati, gli intellettuali superano l'Opera Bastille voluta da Mitterrand e guadagnano la rue de la Roquette, una sfilata di ristoranti cinesi, tunisini, messicani, giapponesi, che culmina nel locale più in voga, il Blue Elephant: fontane, piante tropicali, tetto a pagoda, parquet in tek, statue di Buddha, un intreccio di soppalchi che consente alle coppie di appartarsi su otto livelli diversi per gustare i gamberi al cocco e gli altri piatti dello chef thailandese. Per spostarsi nei disco-bar alla moda basta prendere la prima traversa, rue de Lappe: al 14 si balla la musica tedino alla Galerie; al 19 «La Chapelle des Lombards», già frequentata da Marcel Cerdan e Edith Piaf, ha cambiato linea e imposto reggae, salsa e musica latina ai parigini. Che, ormai assuefatti ai nuovi miti, già puntano verso la Parigi prossima ventura. Non i grattacieli della Défense, affollata di giorno ma deserta al tramonto, bensì quelli del XIII arrondissement, lungo la Senna: tra le torri della Grande Biblioteca, l'ultima delle opere di Mitterrand, le invenzioni degli architetti, i nuovi giardini, e la rue Louise-Weiss, che cinque anni fa non era segnata sulle mappe e ora è una sfilata di gallerie d'arte: al numero 20 le sculture contemporanee neozelandesi, al 24 le fotografie di John Sturges, al 28 i video dei giovani registi scozzesi, al 30 le creazioni dei designer americani... Aldo Cazzullo 998 Cronache