LE LIBERE FONTI DI MACHIAVELLI

LE LIBERE FONTI DI MACHIAVELLI LE LIBERE FONTI DI MACHIAVELLI Discepolo infedele degli antichi MACHIAVELLI E GLI STORICI ANTICHI Mario Martelli Salerno pp. 22S. L 38.000 L saggio di Mario Martelli su Machiavelli e gli storici antichi è un esempio di come l'analisi filologica di un testo, se condotta con rigore e finezza, possa portare a belle e interessanti scoperte e sollevare problemi affascinanti anche per il lettore che non è uno specialista in materia ma desidera capire la ricchezza dei grandi testi del passato. L'autore presenta il proprio lavoro come uno studio tutt'altro che conclusivo al fine di «appurare caso per caso di quali fonti Machiavelli effettivamente si servisse; come procedesse nell'elaborazione di questa sua opera; quali fossero gli strumenti di lavoro a sua disposizione». Ma anche se non ha l'ambizione di dire l'ultima parola su questioni così complesse, il saggio dimostra in modo inoppugnabile che Machiavelli quando cita o commenta il testo di Livio incorre in più di centotrenta errori e infedeltà. Eppure Machiavelli si di- chiaro ammiratore e discepolo scrupoloso degli antichi. Chi non ricorda le parole della lettera a Vettori del 10 dicembre 1513: «Entro nelle antique corti degli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et quelli per loro umanità mi rispondono». Quando riporta le narrazioni degli storici antichi Machiavelli lo fa tuttavia con molta leggerezza. Nel primo libro dei Discorsi, per citare uno dei tanti casi che Martelli ha individuato, Machiavelli riporta il racconto che Livio fa di un rito che i Sanniti imposero ai soldati chiamandoli «ad uno ad uno» a giurare, «nel mezzo di più centurioni, con le spade nude in mano», che non avrebbero mai riferito nulla di ciò che vedessero o sentissero, di essere pronti ad andare dove i loro comandanti ordinassero loro di andare, di non fuggire mai e di ammazzare chiunque cercasse di fuggire dalla battaglia. Nel testo di Livio a giurare sono solo i maggiorenti della nobiltà sannita, anche perché, nota Martelli, se davvero avessero giurato tutti i quarantamila soldati dell'esercito «sarebbe stata invero lunga faccenda», (p. 23). In altri casi Machiavelli distorce il significato del testo di Livio, come quando commenta l'episodio di Marco Centenio Penula che si presentò davanti ai senatori promettendo di sconfiggere Annibale in qualsiasi luogo, se gli avessero concesso di formare un esercito di volontari. I senatori accolsero la richiesta, commenta Machiavelli, perché temevano che in caso contrario il popolo avrebbe fatto tumulti contro l'ordine senatorio. Neanche a dirlo il temerario Penula fu con tutti quelli che lo seguirono «rotto e morto» da Annibale. Ma osserva Martelli, che «il Senato fosse consapevole della temerarietà di Penula e che gli accordasse quello che egli chiedeva solo per assecondare la stoltezza dei popolo ed evitare la sua ostilità, è tutta invenzione di Machiavelli». Il quale stravolge il senso del racconto di Livio, che fa capire bene che non furono i popolani, bensì i senatori a com- Commeil testo incorsedi centotr ntando di Livio in più nta errori portarsi da stolti. E lo fa perché vuole offrire al lettore un esempio che dimostri la tesi del capitolo, ovvero che «Il popolo molte volte disidera la rovina sua, ingannato da una falsa spezie di beni; e come le grandi speranze e gagliarde promesse facilmente lo muovono». Altre volte ancora Machiavelli attribuisce ai suoi amati antichi opinioni che essi non avevano, come quando dice che il «gravissimo» Plutarco sosteneva che il popolo romano ottenne i suoi trionfi più per fortuna che per virtù e presenta lo stesso Livio come un sostenitore della medesima tesi. Nel caso di Plutarco, spiega Martelli, allontanandosi dall'opinione espressa da Gennaro Sasso nel suo importante studio su Machiavelli e gli antichi (1987-88, 3 voli.), «mi sembra, non solo ovvio, ma anche doveroso concludere che Machiavelli non lesse mai il De Fortuna Romanorum (di Plutarco)» (p. 55). Per Martelli, Machiavelli non è dunque né uno storico che persegue la verità, né un politologo che analizza con scientifico distacco gli eventi politici, e ancor meno un uomo di vasta cultura classica, bensì un politico con letture «spesso farraginose e tumultuarie» che cerca negli antichi sostegno e convinzioni che egli ha maturato per altre vie. E' un'ipotesi suggestiva che personalmente trovo più convincente dell'idea di Machiavelli storico, politologo o cultore di lettere classiche. E' tuttavia possibile che Machiavelli leggesse gli antichi non come uno storico né come un politologo, né come un umanista, ma neppure come un politico bensì come un oratore che cerca nelle pagine degli antichi non la verità fattuale o testuale, ma degli esempi atti a persuadere. Proprio perché scriveva seguendo le regole della retorica classica, soprattutto della retorica romana, che egli conosceva bene, poteva amplificare, ornare, colorare, omettere. E' questa un'ipotesi da dimostrare, ma credo che ci possa aiutare molto a capire come nacquero e perché presero quella forma le grandi pagine dei Discorsi e delle altre opere politiche di Machiavelli. Maurizio Viroli Commentando il testo di Livio incorse in più di centotrenta errori MACHIAVELLI E GLI STORICI ANTICHI Mario Martelli Salerno pp. 22S. L 38.000

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