AL SERVIZIO DI ALFIERI

AL SERVIZIO DI ALFIERI AL SERVIZIO DI ALFIERI Tornano le memorie di Polidori, il segretario «stupido» mentre un romanzo fa rivivere la figura delfido Elia AETANO Polidori, chi era costui? Questo nome, famigliare soltanto agli specialisti di letteratura italiana, appartiene tuttavia a un assai notabile, ed eccentrico, lignaggio. E' stato nonno del pittore e poeta preraffaellita Dante Gabriele Rossetti, padre di quel John William che, medico e segretario di Byron, scrisse «Il Vampiro», capostipite di un genere fortunato. Ma Gaetano Polidori brilla di luce sua per avere condiviso in quattro anni (dal 1785 al 1789), come segretario, la vita burrascosa di Vittorio Alfieri. Nel 1843, ormai ottuagenario, diede alla luce le sue brevi memorie (La magion del Terrore) che, vivacissime per se stesse, si leggono come un malizioso e affascinato controcanto della «Vita» alfieriana. Polidori non ha dubbi, il libro di Alfieri è colmo di inezie mentre trascura fatti importanti e soprattutto, par di capire, non rende giustizia al segretario, di cui non cita neppure il nome. Assunto come copista e lettore, lo «stupido Pisano» (così Alfieri) si rivelerà copioso poligra fo. Nel castello alsaziano di Martinsbourg non esita a correggere nel Conte una errata pronuncia o a raddrizzargli un endecasillabo, lo sbalordisce recitandogli a memoria classici italiani e latini ed esibendogli un poemetto («La magion del Terrore», appunto) che gli merita di poter cavalcare con lui e sedergli accanto, trionfalmente, nel «fetonte» o cocchio. Tende a mettersi alla pari non soltanto in letteraria dignità. Una volta minaccia di prenderlo a pugni, e fa venire in mente il «fidato Elia» di un'altra stagione alfieriana. Non fosse per le coloriture comiche, da opera buffa, sembrerebbe mimare l'antagonista assoluto delle sue tragedie. Tanto che la contessa d'Albany viene relegata ai margini, anche se ha il lusinghevole e disdicevole ardire di elogiare le cosce rotonde di Polidori anteponendole a quelle dell'ingnignito Vittorio. Alfieri, «superbo al pari del Satanno di Milton, e più collerico dell'Achille di Omero», rivive in schizzi memorabili. Si leggano le note parigine, dove lo vediamo «saltar di gioia sulle rovine della Bastiglia» e sottrarsi al linciaggio della folla in rivolta dopo aver bastonato per strada il cocchiere («Vedete un poco il bel repubblicano! l'ardente promotore della libertà!»). Polidori, elettrizzato dall'aria della Rivoluzione («mi aveva fatto girar la testa») decide, dopo un rimbrotto, di licenziarsi. Adesso si è ravveduto, riparato nell'alveo della Londra vittoriana sente una punta di rammarico per la brusca interruzione del sodalizio, mentre senza parere provve¬ de anche lui a rinvigorire, con stilettate di irriverenza, il mito alfieriano. Ho menzionato prima il servo Elia, che diventa figura centrale nel libro di un nostro contemporaneo, Tommaso Giartosio. Doppio ritratto è un libro strano, imprendibile, che intreccia piani diversi, racconto autobiografico e indagine filologica, linguistica e psicologia del profondo, riflessione estetica e piglio morale. Prende le mosse da una piccola città di mare, con una villa antica, una ramificata famiglia, un cugino che è l'amico del cuore e il rivale del narratore, il suo doppio. A una pare¬ te è appeso il ritratto di un adolescente dai capelli rossi in cui si suole identificare l'antenato Vittorio Alfieri. ,Di là nasce forse la spinta a raccontare la propria storia in parallelo con quella del poeta. Meglio ancora, a indagare la mirabile «Vita» alfieriana per imparare come si diventa scrittore. La ricerca è incalzante e appassionata, fitta di interrogativi, di obbiettivi spostati continuamente di lato e in avanti, capziosa a tratti e lampeggiante. Il germe della poesia nel linguaggio del bambino Vittorio che si trova a contendere con il linguaggio convenzionale e falso del potere adulto. La rabbiosa difesa di parole chiave, di simboli elementari, quali il sangue e la rossa chioma. L'intuizione che la libertà suprema della poesia nasce dalla servitù. Dopo tutte le dissipazioni e sottomissioni, è a quel linguaggio primo che bisognerà tornare, alle radici che chiamano dal basso. E' qui che appare decisivo l'intervento di Elia, il servo che fa da guida al padrone smanioso, nevrotico, quasi pazzo, per le più impervie contrade d'Europa. La rivelazione si avrà nella lite furibonda di Madrid che si conclude con l'esaltazione del «reciproco misto di ferocia e generosità ...di noi piemontesi». In lui Vittorio individua le figure perdute, il padre, il fratello, il compagno di gioco, ritrova la propria natura in un linguaggio che si nutre di gesti e di silenzi. Ed è lo stesso Elia, tramite simbolico della sua maturazione, che lo lega alla famosa sedia. Ma il servo del libro è figura idealizzata, nella realtà Alfieri lo considerava una canaglia, a un certo punto lo mandò in pensione al paese astigiano, comprando il suo silenzio. Perché questa rinnovata alienazione? Perché imporre alla voce di un «sommerso» una salvezza fittizia che ha l'aria del tradimento? Elia, all'insaputa di lui, ha cercato di impadronirsi approssimativamente della sua lingua, nelle lettere inviate al cognato che controllava Vittorio da lontano. Nei difficili equilibrismi tra un padrone che vuole sapere tutto e un altro che non deve sapere niente, riesce a esprimere con fatica qualcosa di intimamente suo, la sua rivolta segreta. Scopre il bisogno di scrivere mentre Alfieri scopre il bisogno di diventare poeta. La «Vita» - conclude Giartosio - è un romanzo di formazione ma anche di deformazione. E' grande proprio perché lascia trasparire una inquietante complessità, lascia intuire «dentro il linguaggio formato quello che affiora», e sollecita infine dall'estetica una risposta dell'etica. E' ciò che tenta di fare, sul filo dell'inchiesta, il libro di Giartosio. Che convinca di più nelle pagine alfieriane e meno in quelle autobiografiche, è un accidente che non compromette la seduzione di una intelligenza capace, a furia di acutezze, di riuscire mi poco falotica, stregonesca. Lorenzo Mondo Maliziose stilettate di irriverenza nella «Magion . del terrore»; indagine filologica, riflessione estetica e pìglio morale nel «Doppio ritratto» di Tommaso Giartosio LA MAGION DEL TERRORE Gaetano Polidori A cura di Roberto Fedi Se//er/o pp. 157. L. 18.000 DOPPIO RITRATTO Tommaso Giartosio Fazr pp. 231, L. 28.000 cconto autofico e indagiogica, linguipsicologia del do, riflessioetica e piglio . Prende le da una picco di mare, con villa antica, amificata fa un cugino l'amico del e il rivale del ore, il suo . A una pare¬ orio Alfieri. memorie di dori escono da Sellerio Vittorio Alfieri. Le memorie di Polidori escono da Sellerio

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