NABOKOV, UN COCKTAIL AMARO PER L'UNIVERSITÀ' AMERICANA

NABOKOV, UN COCKTAIL AMARO PER L'UNIVERSITÀ' AMERICANA NABOKOV, UN COCKTAIL AMARO PER L'UNIVERSITÀ' AMERICANA PNIN Vladimir Nabokov traduzione di Elena de Angeli Adelphi pp. 187 L 26.000 ELLO scompartimento di un treno viaggia un uomo attempato, calvo, con gli occhiali di tartaruga sul naso a patata, il torace robusto, le gambette sottili e i piedi femminei avvolti da calzini di lana scarlatta a losanghe lilla. Nonostante la sua passione per gli orari ferroviari e i calcoli meticolosi sulle varie possibilità di spostamento, si trova sul treno sbagnato. Inizia così Pnin di Vladimir Nabokov, pubblicato a New York nel 1957 e ora riproposto per Adelphi nella efficace traduzione di Elena De Angeli. Il romanzo, uscito tra l'edizione francese (1955) e quella americana (1958) di Lolita, che rese celebre lo scrittore russo, è un ironico e umoristico ritratto del mondo accademico statunitense, colto nei suoi tic, nei suoi snobismi, nelle crudeli rivalità mascherate da una vernice di affettato cameratismo. Protagonista della vicenda è l'attempato viaggiatore sul treno sbagliato, il professor Timofej Pnin, che insegna lingua russa al Waindell College. Cinquantaduenne, è approdato in America dopo essere fuggito da Pietroburgo a vent'anni e averne trascorsi quindici a Parigi. Ha alle spalle un matrimonio fallito con Liza, studentessa in medicina bella e inaffidabile, poi tre volte divorziata, e cerca di stabilire un rapporto con il figlio Victor, che non è suo ma del secondo marito, lo psicoterapeuta Eric Wind. Per inaugurare la sua nuova casa, organizza un ricevimento in cui cura personalmente il menu e dirige le operazioni culinarie. Nabokov fa un elenco minuzioso dei piatti, dei cocktail e del punch pniniano, «runa inebriante miscela di Chàteau Yquem gelato, succo di pompelmo e maraschino», servita in una coppa di vetro acquamarina, apprezzato dono di Victor. I convitati discutono di letteratura, di metodi di insegnamento, di problemi linguistici, dove affiora la consueta maestria dell'autore, raffinato giocoliere, acrobata della parola, genio insuperabile dell'artificio. Si veda la disquisizione sul materiale di cui sono fatte le scarpe di Cenerentola, di vetro o di scoiattolo? Il dubbio nasce da due parole francesi di significato diverso ma con lo stesso suono: verre, vetro, e vair, vaio, che è lo scoiattolo russo, con la pelliccia di colore grigio-argento. Lo scoiattolo ritorna in una pagina da antologia dove, sbucando tra gli alberi del parco, fa capire a Pnin di aver sete e lo induce a premere il bottone di una fontanella. Assalito da crisi improvvise, il professore prova un «fremito di irrealtà», non crede in Dio ma in una «democrazia di fantasmi» in cui le anime dei morti presiedono ai destini dei vivi, ricorda con una «fitta di tenerezza» il suo amore di diciottenne per Mira, una ragazza rivista a Berlino ormai sposata negli Anni Trenta e poi uccisa in un campo di sterminio. Pnin emana un «fascino disarmante» per la sua candida mitezza: a lui è sufficiente consultare gh schedari della biblioteca per rivivere gli anni dell'infanzia, provare nostalgia della fanciullezza perduta. I ricordi colorati di quell'epoca, le mattine violazzurre di Pietroburgo solcate dalla primavera artica che faceva scivolare i ghiacci lungo la Neva, segnano la perdita della bellezza di un mondo infranto per sempre dal vento della rivoluzione. Nel finale l'autore scopre le carte ed esibisce il gioco della finzione: a Pietroburgo, nella primavera del 1911, Pnin e il narratore, più giovane di un anno, si sono incontrati da ragazzi, e l'occasione è stata un granello di polvere nell'occhio del narratore, che è stato portato da un oculista, il padre del futuro professore di russo. Poi, per una serie di curiose coincidenze, che rivestono un ruolo fondamentale negli intrecci a spirale della narrativa di Nabokov, i due personaggi si sono rivisti qualche anno dopo in occasione di una recita teatrale in campagna e negli Anni Venti a Parigi insieme al gruppo di émigrés russi e a Liza, che, forse innamorata del narratore, gli faceva leggere le sue brutte poesie che scimmiottavano le liriche della Achmatova. L'ultima immagine di Pnin lo ritrae in partenza nella sua piccola berlina azzurro chiaro, licenziato dall'università per le rivalità tra professori di dipartimenti diversi e per essersi rifiutato di lavorare alle dipendenze del narratore. Come Cicikov impegnato a far luce sulle «anime morte», Pnin, metodico e distratto, goffo e maldestro, suscita un sorriso amaro nel lettore e si afferma come il personaggio più gogoliano di Nabokov. Massimo Romano PNIN Vladimir Nabokov traduzione di Elena de Angeli Adelphi pp. 187 L 26.000

Luoghi citati: America, Berlino, Ello, Mira, New York, Parigi, Pietroburgo