Gli sforzi per diventare una buona torinese

Gli sforzi per diventare una buona torinese LETTERE AL GIORNALE: IL LUNEDI' DI O.d.B. Gli sforzi per diventare una buona torinese Quante Torino? Caro Signor Del Buono, ho ventisei anni, nel marzo scorso mi sono sposata e sono venuta a vivere con mio marito a Torino. Specialmente arrivando da Roma dove sono nata e cresciuta, la città m'è piaciuta tanto per la calma e la cortesia delle persone, le belle strade grandi, le belle case, la mancanza di chiasso. Il quartiere e l'ambiente nostri sono sinceramente privilegiati, però mi pareva che queste caratteristiche appartenessero a tutta la città. Dopo alcuni mesi non ho cambiato idea, ma qualcosa mi piace di meno. Ho come l'impressione che nella parte di Torino che comincio a conoscere la gente abbia talmente orrore o paura della volgarità, da rinunciare quasi a vivere. E' un'antivolgarità che si esprime in tante cose importanti - dai comportamenti o dal modo di manifestare i sentimenti o dalla maniera di nascondere le passioni come fossero eccessive, sgangherate, sino alla scelta di stile r>el vestire. Le donne anche giovani che conosco e frequento evitano di portare vestiti colorati o sexy o persino troppo «in», e sono già disperate perché la moda che per la prossima stagione impone il grigio le deruba del colore prediletto, il più anonimo. Neppure a me piace la volgarità, intendiamoci: ma una tale ossessione di distinzione mi sembra un'ostentazione come il contrario. Per di più, mi pare contenere qualcosa di automortificante, di timoroso e rinunciatario, di triste, che non contribuisce a dare alla città un po' di vivacità e le toglie vitalità, lo faccio molti sforzi per adeguarmi, anche per non mettere a disagio mio marito (la stessa ragione per cui le chiedo di rispettare per me l'anonimato). Faccio tutto il possibile per diventare una buona torinese, ma spesso non ci riesco e a volte mi chiedo se ne valga la pena. XY, Torino Le domeniche d'un tempo Signor Oreste del Buono, amico di ogni giorno, certo è un prezioso regalo quella cartina dei principali percorsi collinari che le porge il dottor Paolo Oddone, ma quale donna solitaria si può avventurare per quei sentieri senza temere incontri con strani figuri che ti arrivano alle spalle come portati silenziosamente da una folata di vento? E, se ti capita un malessere, uno stordimento, dove ti accasci nell'attesa che un'a¬ nima buona ti sorregga? Anche questo è necessario a una popolazione che invecchia a dispetto della Sanità e non a tutti è gradita la comitiva organizzata da enti, associazioni et similia. Frequentavo la collina con mio Padre fin dal 1927, ogni domenica di bel tempo era obbligo andare a Cavoretto su è giù per le scalinate, mentre, ad alta voce, dovevo ripetere e calcolare a fatica i 7/8 della torta, compito assegnato dalle Suore Giuseppine. Non conoscevamo il «centro» della città riservato alle Signore eleganti e che tanto piaceva a mia madre, lei che veniva da Parigi e che, unica trasgressione, mi portava a mangiare la «fiocca» (panna montata) in Piazza San Carlo in quella gelateria che stava dove adesso c'è - credo un caffè San Cario. La fiocca era servita in conchiglie e finivamo con lo star male, tanto eravamo timorose che mio Padre scoprisse la nostra golosità. Chi ricorda come me il tram numero I ? Arrivava dalla Crocetta percorrendo Corso Galileo Ferraris, ed era considerato i! mezzo pubblico più chic riservato alle Signore con cappelli grondanti piume, nastri e velette. E quella linea 16 che percorreva tutti i viali cittadini con il biglietto di una lira, che diventò il lusso di mio padre anzia¬ no e di tanti cittadini che non avevano grandi ambizioni? Oggi nei mezzi pubblici si teme il borseggio, la mala educazione dei giovani sdraiati sui sedili oppure accovacciati, una sull'altro, a scambiarsi tenerezze e fragorose risate, mentre il settantenne - in piedi - per discrezione e imbarazzo gira lo sguardo altrove, aggrappato ai sostegni, spesso irraggiungibili se non si supera il metro e sessanta di altezza. Oggi sulla Stampa il professor Vattimo discute con Marcello Pacini della nostra città per un futuro da inventare, ma non ricordano, troppo giovani, il passato di Torino quando, non del tutto aggiornata ai progressi della vicina Francia, era chiamata «Piccola Parigi» con meno esplosioni di feste e balli e canti e pullular di iniziative, ma dove ci si rispettava e salutava garbatamente e le Chiese erano stracolme di persone che ritenevano indispensabile essere presenti al rito domenicale. Anche per sfoggiare qualche capo di vestiario elegante. Ricordo i Santi Angeli di via Amedeo Avogadro e Don Mario che ci conosceva tutti: regalava una storiella ai bambini e aveva sempre pronta una barzelletta per gli adulti a fine Messa. E poi via a comprare le bignole e i marrons glacés. Intanto a casa ci aspettava un delicato arrosto e patate fritte, e in ultimo la bottiglia di buon Barolo. Oggi si sta fuori dalla Chiesa tanto da indurre Papa Giovanni a formulare la celebrazione della festività in un suo volumetto di sagge indicazioni. Mi consenta di firmare con il cognome di mia Madre che ben si addice al mio no- Claire Auclair, Torino Dimenticata dalla radio Gent.Mo Sig. Del Buono, premetto che sono torinese anziana (1916), affezionata a Torino e a tutto il Piemonte. Mio Padre era di Pinerolo, caduto nel 1917, a Torino ho nipoti. Uno alla cattedra di chimica all'Università. Andavo spesso al cimitero, ma ora sono troppo vecchia. Ho una figlia a Roma e un figlio a Lodi, lo sto bene, ringraziando Dio. Leggo La Stampa, specie la sua rubrica e così mi sono decisa a scriverle. E' verissimo quello che dice oggi il signor Federico Albois di Biella: «Torino è ignorata da sempre». Anche la mattina, quando sono le 6,30 e c'è il gallo della TV, suonano dapprima Arrivederci Roma, Mia bella Napoli eccetera, ma Torino niente, eppure potrebbero suonare Ciao Turin oppure quello che cantavano gli studenti di una volta: Viva Torino, città delle belle donne, noi siamo le colonne dell'Università. Siamo dimenticati persino dalla Radio che è nata qui. La ringrazio per quello che potrà fare perché sono molto affezionata. Rosina Masera, Torino Le referenze del City Manager Egregio Signor Del Buono, sono titubante nell'esprimerLe il mio quesito senza alcun supporto di storia o letteratura. Anzi trag- go l'esempio dall'umile servizio domestico. Eccolo: quando si assume un domestico, cioè un collaboratore familiare, usa richiedere referenze perché si vuole sapere se sa fare il suo mestiere, se è onesto, se è diligente e in quale casa ha svolto le sue mansioni; e se il domestico non esibisce referenze scritte -. il cosiddetto «benservito;) - si telefona ai precedenti datori di lavoro. La mia domanda è: il City manager è un servitore dello Stato e nella specie della comunità cittadina che lo assume, perché allora.non si traggono le deduzioni ovvie dalle sue referenze? Mi pare che il City manager proposto dal Sindaco di Torino abbia prestato la sua opera alle Ferrovie, alle Poste e alt'Atac. Di male in peggio! Mi sembra che un «benservito» la collettività degli utenti di Ferrovie, Poste e Atac non glielo possa proprio rilasciare. O mi sbaglio? Umilmente. Maria Rivoire Giaveno Umilmente? Per carità, cara Signora: mi ha fatto una bella lezioncina [o. d. b.]