Auschwitz, lo scandalo delle croci

Auschwitz, lo scandalo delle croci Sono tante, di tutti i tipi e le altezze, un cartello dice: cattolici questa terra è vostra Auschwitz, lo scandalo delle croci Al lager numero uno dove si sfidano ebrei e polacchi REPORTAGE LA STORIA DIVISA AUSCHWITZ DAL NOSTRO INVIATO «Quando arrivano il giorno è appena cominciato, la strada che davanti al Lager n. 1 si allarga ad arco è silenziosa, spenta, la pioggia ha smesso ma ha lasciato tutto attorno pozze. Sul furgone bianco la croce è ancora in pezzi, il braccio più lungo coricato fra i sedili posteriori, quello più corto insieme a sacche da viaggio, a scatole, indumenti. Per ricomporla bastano un paio di chiodi, e contro la vecchia torre di guardia che interrompe la muraglia di cemento il ritmo spezzato del martello è lugubre, un'eco che sembra levarsi dalla storia. Sono venuti in otto da un villaggio dell'estremo Sud, ragazzi sui vent'anni e un paio di anziani, e adesso che alzano la croce verniciata di resina annerita sembrano in processione: anche se nessuno prega, ad alta voce almeno. Anche se esibiscono piuttosto simboli profani: nell'atteggiamento infastidito quando gli si chiede perché, nel modo di vestire chiassoso o neo punk, nella gestualità spavalda, un po' insolente. Sono pochi metri appena, fino al cancello che chiude l'accesso al prato delle croci: ma per vedere l'anfiteatro, diventato posto di confine dove si consuma un conflitto soltanto in apparenza marginale, bisogna avvicinarsi ancora. Fino ai fogli protetti con il cellophan e legati alla cancellata a maglia stretta, arrugginita, intrecciata qua e là di fiori fradici di pioggia: «Abbiamo il diritto di ricordare col simbolo della nostra fede i polacchi martirizzati in questo lager», «Difendiamo le croci». Soltanto affacciandosi alla cancellata arrugginita si capisce che il prato che qui chiamano «Zwirownia» - la «fossa della ghiaia» dove i prigionieri venivano a scavare - è un campo seminato di croci disposte a semicerchio davanti al blocco numero 10 del Lager: croci di abete grezzo, croci di metallo, verniciate, croci di trenta centimetri e di tre metri, croci di rami betulla e cassette da frutta, croci bianche, marroni, nere, croci coi colori bianco-rosso polacchi a bandoliera, cespugli di croci. 225 croci e davanti a tutte la più alta, la «Croce del Papa» come la chiamano giocando sull'equivoco: quella di 8 metri e in legno d'abete dei monti di Zawoi; quella intorno alla quale tutto è cominciato, e nel nome della quale la Chiesa polacca rischia la sua crisi più imbarazzante, più dolorosa. Adesso che la croce verniciata di resina annerita è pronta e la processione si avvicina, Kazimierz Switon toglie il lucchetto e libera il cancello: «Sono soltanto il guardiano delle croci», dice facendosi da parte e sapendo di mentire. Kazimierz Switon ha 67 anni, fin dal tempo del regime è stato esponente di rilievo del nazionalismo politico polacco e ha accumulato denunce per antisemitismo. Da quattro mesi vive all'ingresso del prato delle croci - sotto uno striscione che annuncia la mobilitazione del «Comitato delle vittime di guerra» - in una tenda arancione che gli fa da casa e da ufficio, da postazione logistica e da insegna mediatica: «Per rispondere alla sfida del rabbino americano Avi Weiss», dice. «Per impedire che gli ebrei portino via le croci con la scusa che ad Auschwitz ne sono morti tanti, dei loro». E' Switon a organizzare il flusso delle croci, perlomeno a scandirlo e incoraggiarlo insieme al presidente del «Comitato vittime di guerra», Mieszyslaw Janosz, che fonti di stampa tedesche definiscono una ex spia dei servizi segreti comunisti, e che è stato fra i promotori del «Supermercato di Auschwitz» progettato davanti all'ingresso del Lager: un altro scandalo rientrato con ritardo e con fatica, un prefabbricato abbandonato dalle finestre cieche, oggi. E' Switon a preparare comunicati di diffida nei confronti del cardinale Glemp, il primate che non approva ma esita, che dice «sì alla Croce del Papa» e «no alle altre»; è lui a lanciare messaggi di sfida al governo di Jerzy Buzek, terrorizzato dai danni all'immagine della Polonia ma deciso a «difendere il diritto dei polacchi a ricordare i propri morti». E' lui a sedurre sottilmente quella parte dell'intelligencija liberale nemica del nazionalismo, ma sensibile al richiamo dell' orgoglio nazionale e pronta a evocare - legittimamente - «il sacrificio della Polonia e dei polacchi» negli anni della guerra. E' lui a dirigere scioperi della fame e della sete per «ottenere la garanzia scritta che qui tutto resterà com'è»: il suo portatile squilla in continuazione, e un'eccessiva fiducia nell'impermeabilità della lingua polacca gli fa pronunciare ad alta voce parole imbarazzanti o equivoche, «Attenzione a non consegnare quel foglio lì all'ebreo». Per questo, lasciare la «Croce del Papa» alle sue cure è un insidioso eirore: intorno al prato delle croci si consuma molto più di un contenzioso a distanza fra nazionalisti polacchi antisemiti e il rabbino Weiss, preoccupato di far togliere i simboli cristiani dal «più grande cimitero ebraico». Questo campo seminato di croci è diventato uno dei valichi del mondo, ima di quelle zone esposte alle tempeste della storia dove le lingue si rincorrono e le passioni possono incendiarsi: e dove la rinuncia alla comunicazione è già provocazione, un'arma affilatissima e tagliente. Perché tutto ha significati sovrapposti e tutto è al limite, in questo spazio riservato alla memoria, e basta guardarsi intorno per accorgersi che niente qui è «normale»: le 225 croci sono a ridosso del blocco nel quale 152 polacchi sono stati uccisi dalle SS, nel 1941. La tenda di Switon, inoltre, è ai piedi del Teatro di Auschwitz: trasformato durante la guerra in un deposito di Zyklon 2 il gas usato nel lager per uccidere centomila polacchi e un milione e mezzo di prigionieri ebrei, russi, omosessuali, zingari - e diventato poi magazzino per fertilizzanti di un Kombinat. Finché il governo comunista ne autorizzò la trasformazione in un convento di suore carmelitane scese da Poznam, nel 1984: immediata occasione di scontro con la comunità ebraica internazionale, fino al loro trasferimento in un monastero esterno al lager. E' fra queste quinte che, nel luglio del 1989, la «Croce del Papa» compare davanti ad Auschwitz. Binnnovando la consapevolezza del «prezzo pagato dai polacchi durante la guerra» in questa metafora dell'Olocausto che è, per l'appunto, Auschwitz. Ma ponendo anche le basi per un conflitto che a distanza di anni è appena esploso, forse, e che la sua stessa aggrovigliata storia racchiude e anticipa, la Croce viene esposta per la prima volta davanti al Lager numero 2 di Auschwitz, Birkenau, quando Giovanni Paolo II vi celebra la messa durante il suo pellegrinaggio del '79. Partito il Papa, le autorità comuniste ne ordinano la distruzione: ma padre Stanislaw Gorny, parroco di St. Maximilian, la nasconde. Well'87 la Croce ricompare a Birkenau nel primo annniversario della beatificazione di Edyth Stein, un'ebrea convertitasi al cattolicesimo, fattasi suora e morta nel Lager. Subito dopo viene nascosta nel convento: finché il 26 luglio del 1989, su richiesta di un gruppo di ex prigionieri polacchi, padre Gorny decide di esporla nel prato davanti al monastero, «un terreno affidato alle suore e dunque privato» (ma ritornato nel frattempo allo Stato, che non può ottenerne la restituzione perché prima della guerra apparteneva a contadini espropriati dai nazisti). Il rabbino Weiss ne chiede la rimozione per la prima volta nel '94: da allora la tensione intorno alla «Croce del Papa» non si placa, e i gruppi nazionalisti si imposessano di quella che per loro è una ghiotta occasione di consenso. Basta scendere nel campo delle croci per accorgersi che l'incendio potrebbe propagarsi, in questo luogo di memorie atroci, di immensi dolori e di tragedia collettiva: «In hoc signo vinces», dice il foglietto attaccato a una delle croci più alte e firmato «Organizzazione popolar-radicale dei giovani patrioti di Breslavia e Bassa Slesia». «Solo sotto la croce un polacco è un polacco e la Polonia è la Polonia», dice il foglietto firmato dal «Movimento per la salvezza del popolo polacco». «Omnia instaurare in Christi», dice la scritta impressa su una delle croci più alte e lustre: l'hanno portata due settimane fa i seguaci del vescovo Marcel Lefevbre, il «tradizionalista» ribelle al Vaticano sospeso a divinis nel '76. Ma al guardiano delle croci tutto questo non importa, almeno in apparenza: «Che vengano qui anche dei neonazisti non è un problema: sono polacchi anche loro, prima di tutto, e vengono qui come polacchi», dice e si congeda. E' appena arrivato un pellegrinaggio da Gdynia, un pullman con una cinquantina di persone, molte donne e soprattutto ragazzini. Li accompagnano due preti giovanissimi che scendono al campo delle croci, si fermano a pregare, risalgono e si appartano davanti alla tenda a discutere con Switon: una decina di minuti, prima di tornare verso il pullman e ripartire. (Approvate quel che succede qui, anche voi volete che restino tutte le croci?». La risposta è uno sguardo all'orologio, il passo che si affretta, una corsa. Emanuele Novazio Arriva un gruppo porta i due bracci su un furgone, li mette insieme con i chiodi e la pianta nel prato Il guardiano si schermisce: io mi limito a fare la guardia Ma è lui che dirige la guerra simbolica Le croci ad Auschwitz: ogni giorno ne spuntano di nuove

Luoghi citati: Auschwitz, Bassa Slesia, Polonia