L'uomo che parlava al vento

L'uomo che parlava al vento In anteprima un racconto di Mario Rigoni Stern dal suo nuovo libro «Sentieri sotto la neve» L'uomo che parlava al vento Un pastore solitario sull'altipiano I UANDO a settembre salivo lassù a cacciare le pernici bianche mi ricreavo osservandolo da lontano. In quella stagione non cercava l'ombra, il sole stentava a sciogliere la brina e al posterno il terreno restava gelato. Seduto sopra un sasso dove aveva ripiegato il mantello di lana grezza, guardava il paesaggio che da più di sessant'anni aveva intorno da giugno a settembre: dall'ultima neve a sciogliersi per liberare i pascoli alla prima a scendere per coprirli; dall'esplodere dei colori primaverili al loro attenuarsi dopo i primi temporali estivi, al bruno rossiccio del settembre. Poi, dopo il 21, giorno di San Matteo apostolo, la montagna diventava selvaggia e inospitale, e lui e le pecore, allora, malinconicamente, avrebbero dovuto lasciarla per scendere tra le nebbie e la calaverna ad aspettare un'altra primavera. Carlo stava là seduto con la pipa spenta tra le mani a guardare immobile e per lungo tratto il Gruppo di Brenta che nitidamente si mostrava in ogni piega, in ogni parete e in ogni neve dentro il cielo limpidissimo e senza nubi. Non sapeva i nomi di quelle montagne, né delle altre sempre bianche e così lontane. 0 meglio, li sapeva ma erano nomi che aveva dato lui con la sua fantasia e che nessun altro conosceva. Come dava un nome a quelle pecore che avevano segni o qualità particolari. Nomi segreti che non diceva a nessuno e che pronunciava a voce alta quando nessuno poteva sentirlo e il vento portava lontano il suono della sua voce e perdeva le parole per le rocce, i valloni, il cielo. (Ma io lo sorpresi una volta che mi ero ingrovigliato tra i mughi: chiamava per nome una pecora e questa correva da lui. Le prendeva la testa tra le mani e par¬ lava sottovoce, poi la mandava via e ne chiamava un'altra). Una pelle di montone gli copriva le ginocchia, ora che gli anni trascorsi e il primo freddo d'autunno gliele facevano dolorare. Ogni tanto con un gesto della mano spediva la sua cagna preferita a controllare il gregge che pascolava più in basso, e quando aveva scrutato ben bene in ogni particolare il Gruppo di Brenta l'Adamello e la Presanella, le montagne lontane ai confini con la Svizzera e l'Austria, allora si girava a ricevere il sole dall'altra parte del corpo e cosi poteva meditare sulla Cima XII e sull'Ortigara. Sapeva ogni trincea, ogni postazione di mitragliatrice, ogni ricovero scavato dentro la roccia. Dov'erano state le batterie, le cucine, le mascalcie, dove ferravano i muli, i posti di medicazione e gli ospedaletti da campo: i cimiteri, anche quelli piccoli, dove aveva sepolto i compagni dopo le battaglie. Nel 1917 era un giovane alpino, mi aveva detto mio zio che era stato il furiere della sua compagnia. Carlo mi considerava suo amico, ma di que¬ ste cose non mi ha mai parlato. Forse perché sapeva che anch'io ero stato in guerra in paesi lontani e mi vedeva andare solitario per queste montagne. Ogni volta che salivo gli portavo giornali e riviste perché voleva essere informato di quello che succedeva nel mondo. Leggeva di sera, mi diceva, alla luce del fuoco dentro il suo piccolo rifugio di due metri per due. Dopo averli letti, stendeva i giornali sopra il tavolaccio, sotto le fronde di pino mugo, per essere protetto dall'umidità. Le pelli di pe¬ cora gli facevano da coperte. Un autunno gli portai il mio primo libro dove raccontavo della guerra in Russia e mi ricordo di averglielo visto ancora dopo tanti anni tutto consunto e affumicato. Quando, dopo aver camminato per rocce e ghiaioni in cerca di pernici bianche, lo andavo a trovare seguendo il belare delle agnelle, mi sedevo accanto a lui per fumare in silenzio le sigarette di trinciato forte. Mi diceva: - Ti ho sentito sparare. Hai raccolto qualcosa? - Quindi gli chiedevo il permesso di abbrustolire la mia polenta sulle sue braci. Non voleva accettare una fetta di polenta o una fetta di salame o un sorso di tè, ma volentieri accettava un racimolo di uva americana. Se mi fermavo a riposare con lui. allora mi raccontava le storie della Croce del Diavolo, dell'Orsara, della Busa del Morto, della Valle dei Compari... Quando alla fine di ottobre ritornavo lassù non trovavo più nessuno. Carlo era lontano per la pianura, lungo i fiumi e le barene con il suo gregge. Guardando verso sud vedevo un mare di nebbia e lo immaginavo seduto su un argine, avvolto nel pesante mantello, la pelle di montone sulle ginocchia, la cagna accanto. Mario Rigoni Stern Era stato alpino nel 17, conosceva ogni trincea, ogni postazione, ogni cimitero di guerra Chiamava per nome una pecora e questa correva da lui Così ripeteva il suo nome al cielo Esce oggi da Einaudi, Sentieri sotto la neve, la nuova raccolta di racconti di Mario Rigoni Stern. Il settantunenne scrittore veneto (è nato ad Asiago) si rivelò al grande pubblico nel 1953 con // sergente nella neve, uno dei libri più famosi del dopoguerra. Dalla sua .ultima opera pubblichiamo in anteprima il racconto Un pastore di nome Carlo. A sinistra un'immagine del Brenta; qui accanto Mario Rigoni Stern

Persone citate: Busa, Einaudi, Mario Rigoni Stern

Luoghi citati: Asiago, Austria, Russia, Svizzera