ARAN Gli scogli della fame

ARAN Gli scogli della fame L'ISOLA A BABORDO. Ai largo delle coste irlandesi l'arcipelago che stregò Flaherty e Moravia ARAN Gli scogli della fame TX, INISHMORE m ENVENUTI nell'isola j della fame, anche se non W si direbbe. I turisti sbargk-i^ cano dal traghetto e correno ad affittare bici■ elette modernissime sul I molo di Kilronan, piccoli m aerei fanno la spola con X<r Dublino, i carretti irlandesi a due ruote sobbalzano alacremente: se è una bella giornata sono la cosa più allegra del modo, insieme a una sorta di buganvillea e al ginestrone fiorito in un'atmosfera che fa dimenticare di essere al Nord, al largo della costa occidentale d'Irlanda, su un mare azzurro che si fatica a credere sia l'Atlantico. Ma appena il tempo gira, i carretti diventano tinozze viaggianti, il vento ti gela la pelle e l'Oceano mostra la su» faccia di .pece, scagliandosi sulle scogliere. «Qui la pioggia è assoluta, grandiosa, terrificante. Chiamare una simile pioggia maltempo sarebbe sproporzionato, come chiamare beltempo il sole a picco, sfolgorante». Lo scriveva Heinrich Boll nel suo Viaggio in Irlanda (pubblicato nel '57). «La pioggia è semplicemente tempo» aggiungeva il Nobel tedesco. E se parlava in generale, posto che alle isole Aran non arrivò mai (si fermò a Galway) forse non sapeva, o forse presentiva, che quell'immagine si adattava perfettamente proprio all'arcipelago intravisto al largo, dopo aver visitato il cimitero di Drumcliff ed essersi fermato sulla tomba di William Butler Yeats, con l'iscrizione voluta dal grande poeta del «risveglio celtico»: «0 cavaliere, getta un freddo sguardo alla vita, alla morte, poi continua a cavallo la tua strada». Le isole erano troppo lontane, soprattutto a cavallo. Ci sarebbe voluto una curragh, la barca nera dei pescatori e degli antichi eroi, che in certi casi si dice trovi la strada da sola. E' vero, c'era stato un grande film, poco prima della guerra, che avrebbe potuto traghettarlo. Era L'uomo di Aran, capolavoro del grande documentarista Robert J. Flaherty. Ma proprio a cagione di quel film le Aran erano un po' «compromesse» ideologicamente. In quel momento non erano una meta. Erano solo uno scoglio nell'Oceano. Ora le isole, di cui Inishmore è la maggiore, sono invece notissime e popolarissime. Uno telefona all'Ufficio del turismo irlandese a Milano, per esempio, e se per caso viene messo in attesa ascolta incisa su nastro una bella canzone di Fiorella Mannoia che, doverosamente, le cita come qualcosa di proverbiale, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Sembrano un luogo comune, ma restano un luogo unico. Una frontiera. Del mondo, o forse del nostro stare al mondo: non solo perché sono (sono state) le isole della fame. Ma perché sono un impressionante monumento naturale alla vita sul margine estremo della sopravvivenza. E alla bellezza grandiosa di una sfida. Si prende una stradina qualsiasi, magari da Kilronan verso Sud, e si notano due tipi diversi di manufatti: certe piccole cappelle che ricordano i nostri piloni campestri eretti per ricordare qualche santo, e verso il mare, sulle scoglie- re, strane vasche il cui fondo è roccia nera levigata e magari tagliata da fenditure, e il cui contorno è un perfetto muro di pietre a secco. Ci può arrivare un'onda, o un rovescio di pioggia, e per un attimo diventano piscine, prima di svuotarsi e brillare al sole. Non sono piscine, quelle vasche, ma sono state campi di patate. Costruiti pezzo per pezzo, poi riempiti con terriccio strappato dalle scogliere e, soprattutto, alghe. Il dilavamento piano piano se le portava via, e la gente piano piano ci rimetteva alghe e terra. Finché è durata. La carestia di metà Ottocento che decimò la popolazione irlandese, e poi l'emigrazione che ne fu la conseguenza, hanno fatto sì che a poco a poco le vasche più esposte venissero abbandonate, perché non c'era più nessuno a coltivarle. E quei piloni, spesso scritti in gaelico, sono cenotafi, piccoli monumenti per ricordare chi è morto altrove, magari in America, magari in mare. In questo senso le isole Aran sono l'equivalente naturale dei cippi eretti in tutte le piazze d'Irlanda per ricordare le vittime della «potatos' famine», quando gli inglesi, che erano i padroni, stettero a guardare mentre qualche milione di irlandesi se ne andava al creatore insieme al gaelico, la lingua celtica d'Irlanda che dopo l'indipendenza ha preso a risorgere con fatica. Ma sono anche un microcosmo simbolico che rappresenta il passato e la memoria di un Paese non più povero, ormai «tigre verde» dell'economia in rapidissimo sviluppo: un luogo del cuore e della cultura, consegnato ad esempio nelle pagine di un classico come 1 racconti delle Aran di John Merrington Synge (l'ultima ristampa in italiano è di Sellerio). Il libro compie cent'anni, perché il futuro commediografo (noto soprattutto per II jurfantello dell'Ovest, traduzione atrocemente invecchiata almeno nel titolo per The Playboy ofthe Western World) era stato mandato lì a «farsi le ossa» come scrittore da Yeats, e cominciò a scrivere proprio nel 1898, durante il suo primo soggiorno. Synge scelse Inishmaan, la meno abitata di tutte le isole, e semplicemente restò ore e ore, giorni, mesi a guardare l'Oceano e ad ascoltare le voci. Un tratto di scogliera lo ricorda, si chiama Cathaoir Singe, ovvero la sedia di Synge. L'opera divenne un culto, lanciò il luogo letterario. Ma non arrivò a Flaherty, il regista, che le isole dovette riscoprirsele da solo, come raccontò nel suo diario. Per lui tutto incomincò nel '29, subito dopo il crollo di Wall Street, su un transatlantico che lo portava dall'America all'Europa e che «sembrava il muro del pianto». Flaherty era forse l'unico passeggero a non aver motivi per piangere. Nato nel Michigan (nell'84) da una famiglia irlandese immigrata proprio negli anni terribili della carestia, era diventato giovanissimo un bravo geologo e subito un audace esploratore. Un'isola dell'arcipelago artico canadese gli venne intitolata per premiare il suo lavoro di esplorazione e cartografia. Ma il giovane tecnico non si limitava a questo: durante le spedizioni portava con sé una macchina da presa e filmava tutto. Quando riuscì a convincere una società francese per l'acquisto di pellami a finanziargli il primo vero film, cambiò mestiere. Nacque Nanook, nel '22, dedicato agli eschimesi, accolto freddamente in America ma che ebbe un grande successo in Inghilterra. , Di lì in poi, l'esploratore con la macchina da presa non si sarebbe fermato più. E nel '29 era appunto sul transatlantico dove, mentre tutti si lamentavano per il denaro perduto in borsa, uno insorse dicendo che c'era di peggio al mondo, per esempio «un paese così povero che gli abitanti non possiedono nemmeno un pugno di terra». Alla lettera. «E quando lo riescono a trovare lo raccolgono con ogni cura e vi gettano un seme». Erano le Aran. Due mesi dopo il regista era già là a controllare. L'uomo di Aran nacque così, una scabra epopea non tanto della povertà e della fame quanto della lotta contro un ambiente assolutamente ostile, condotta con la fierezza del quotidiano. La sfida della normalità. Il film usò come attori gli abitanti, pedinati giorno per giorno nei campi di patate, sulle scogliere o a pesca fra le onde. Fu uno scabro capolavoro, tra realismo estremo e simbolismo mitico, una pellicola di quelle che entrano per la via maestra e da subito nella storia del cinema. Ma ebbe, pur neU'arnmirazione generale, un grave infortunio: fu premiato a Venezia in piena era fascista, alla Mostra del Cinema, e con la «coppa Mussolini». Da quel momento i giovani documentaristi che avevano guardato a Flaherty come a un maestro cominciarono ad attaccarlo come un reazionario. Dall'America arrivavano accuse durissime: l'apprezzamento in Italia e Germania dimostrava che quella pellicola glorificava un «culto razzista del popolo». In realtà non glorificava un bel niente, ma tanto bastò per una cer¬ ta damnatio memoriae. Quella poetica nordica e romantica che ad esempio non era così distante da un Knut Hamsun (si pensi a un romanzo come II risveglio della terra, con il Grande Nord che fa da scenario alla marcia dell'uomo verso la libertà e la realizzazione di se stesso) stava diventando impresentabile. Ma il norvegese Hamsun, premio Nobel per la letteratura, si era compromesso con gli occupanti nazisti, era un «collaborazionista». Flaherty era mille miglia lontano da tutto ciò. Continuò a girare i suoi film, dall'India agli Stati Uniti, mentre l'Uomo di Aran entrava in un cono d'ombra. Ne sarebbe uscito, a fatica. Da tempo a Kilronan c'è una sala cinematografica dove viene proiettato a ciclo continuo, per i visitato¬ ri, che possono poi portarselo a casa in cassetta. Ed è, quel film, l'epopea delle isole, che insieme al libro di Synge le ha trasformate non solo in tema letterario quando davvero in un tema altamente simbolico. Perché qui passato e presente sembrano vivere in una loro lucida contemporaneità. Passato e presente sono uguali. Non è certo che i famosi maglioni da pescatore tipici della zona abbiano davvero ognuno mia trama appena differente perché le donne li sferruzzavano in modo tale da poterli riconoscere, qualora il loro uomo venisse restituito dall'Oceano morto e sfigurato. Forse è una leggenda. Ma è certo, invece, che qui il progresso e i primi venti di benessere hanno portato pochi cambiamenti. Ci sono le automobili (solo per i residenti) i pulmini, i bed&breakfast, l'aeroporto e il «Patruin» di giugno, che è il grande festival sportivo, con gare d'atletica, ma tutto questo è una patina sottile sopra le pietre, dai muretti delle patate ai «Dun», i forti neolitici che dominano qui e là le alture. Non si sa chi li abbia costruiti, forse le popolazione pre-celtiche che abitavano in origine l'isola. Ma è certo che i celti li hanno successivamente abitati, lasciando un'impronta nella cultura attraverso il linguaggio. Qui siamo nel Gaeltacht, dove si parla ancora l'Old Irish, ovvero il gaelico, ovvero l'antica lingua di queste popolazioni, antica quanto il latino ma a differenza di esso ancora «viva». Viva, si fa per dire. Il gaelico è insegnato a scuola e figura nelle insegne e nelle banconote dell'Irlanda indipendente, ma a Est non lo parla più nessuno. Lo hanno ucciso la lunga dominazione inglese, la carestia e l'emigrazione. E' la lingua dei contadini, e i contadini sono stati quelli che hanno pagato il prezzo più alto nella tormentata storia della nazione. Nelle isole Alan (e non solo) il gaelico resiste. E' quello che parlavano Synge e Yeats, e che non riuscirono a imporre come lingua nazionale. E' diventato una lingua di frontiera, di una frontiera estre¬ ma tra questo e un altro mondo, quello dove secondo la leggenda si sono eclissati, a un certo punto, gli dei del pantheon celtico. Uno sta ancora, forse sotto forma di cornacchia, nel punto più alto (e più visitato) dell'isola: è Aengus, detto anche Mac Oc, il «giovane dio» per eccellenza della mitologia irlandese, una sorta di Eros celtico che incanta e seduce con un'arpa d'oro. La sua sede (una delle sedi cui è associato il suo nome) gli rende giustizia solo nelle giornate di sole, quando la roccia nera brilla sopra le onde che si infrangono contro l'altissima scogliera, e spuntano dovunque piccoli fiori gialli, il colore di Mac Oc. Dun Aengus, il suo castello, può invece diventare tenebroso e terribile quando il cielo si chiude, e svelare in tutta la sua potenza l'immagine che più d'ogni altra ha colpito scrittori o registi. Perché il grande forte, costituito da semicerchi concentrici, ogni volta più alti, dà la netta impressione di un luogo cerimoniale più che di una struttura militare. E soprattutto è la metà di qualcosa che forse non è mai esistito o che forse è stato divorato dall'oceano. E' un perfetto semicerchio interrotto, come se fosse caduta una lama, da una scogliera altissima; una frontiera sul nulla, il simbolo stesso della fine improvvisa, del taglio, l'icona di tutti i confini possibili. Ha ispirato pagine molto belle a due scrittori italiani, come Giuseppe Conte (in Terre del mito, Mondadori) e Alberto Moravia, che andò a Inishmore nel'90 e scrisse uno straordinario reportage del viaggio. A lui quelle scogliere lavorate dal tempo e dagli uomini raccontarono una storia: il suolo calcareo con i suoi strati sottili lo faceva pensare, scrisse, ai «fogli» di un «libro sterminato»: «Così da avere l'impressione che su quella punta desolata sia stata dispersa un'intera biblioteca; forse tutto il sapere d'Europa la cui cultura finisce qui». Mario Baudino Alla frontiera del mondo, dove la pioggia è assoluta, terrificante, i cippi ricordano i morti per la carestia nell'Ottocento e in riva al mare nereggiano le vasche di roccia in cui si coltivavano le patate Qui accanto l'oceano in tempesta alle isole Aran; sotto Moravia; in basso Robert Flaherty