I SAGGI DI BORDO.

I SAGGI DI BORDO. I SAGGI DI BORDO. EMILANO RNESTO Calindri vive in una casa affondata nel verde. Se apre le finestre del soggiorno, sembra che lo faccia per toccare il ramo grigioverde di un cedro del Libano, dritto e imponente come una sentinella. Da qui sembra così distante Milano, soprattutto nel silenzio. Qui abita l'attore, quando la vita tuttora randagia gli concede una tregua. Qui studia i suoi copioni. Qui custodisce gli incalcolabili reperti di una vita che sta per abbordare i novant'anni. Quando dice «sarà fra sei mesi», gli occhi gli brillano. Ma che strano brillio ha lo sguardo azzurro di un novantenne: ha una liquidità marina appena dilatata in vapore. Lui sa da dove viene quel placido rimescolio d'azzurro, e lo dice: «Mi sento febee». Fra i suoi colleghi ormai è il più anziano, amato dal pubblico come dieci, come vent'anni fa. Sempre elegante, sempre misurato. In lui s'incarna uno dei secoli più stupefacenti e più crudeli della storia, e lui è febee di esserne parte e di esserne stato il testimone. ((Avevo tredici anni quando un mio compagno mi disse: "Ti faccio sentire la musica". Come mi fai sentire la musica, dissi incredulo. Mi presentò la scatola della radio a galena. Non sentii la musica, sentii rumori stranissimi, ma era ugualmente prodigioso. Poi ho assistito alla nascita della radio, della tv, ho visto l'uomo passeggiare sulla Luna, la scoperta della penicillina. E pensare che mio nonno mi parlò per dieci giorni di seguito della trasvolata atlantica di Lindbergh. Il Novecento è sbalorditivo. Abbiamo il telefonino! Esco da teatro e chiamo la governante; dopo di che ricevo una telefonata da mia sorella, che abita a Roma. In un minuto, senza muovermi, ho percorso distanze enormi. Ed è questo che fa di me un uomo felice, un innamorato della vita fin dall'età della ragione». Calindri ha parlato senza pause, seduto alla scrivania del piccolo studio, quasi sotto un ritratto giovanile di Umberto di Savoia che gli dedica stima e simpatia, e accanto a uno squillante gagliardetto del Genoa, a cui va la sua unica passione sportiva. Fa una lunga pausa, prima di aggiungere: «Dicono che tra qualche anno accadranno cose che non vedrò: saranno vinti cancro e Aids. Lo spero. Cinque anni fa se n'è andata mia moglie, tre anni fa mia figlia. H cancro è spietato». Il Novecento ci ha cambiati. Ora che sta per chiudersi, sembra quasi di vederne il percorso: uno zig-zag veloce di serpe. Ma il teatro? «Eh, anche il teatro è cambiato». Calindri pone i fattori di cambiamento sulla punta di due dita: lavoro e mostri. Spiega: «Negli Anni 30, quando ho cominciato, una compagnia primaria metteva in scena 1015 spettacoli a stagione. Una volta, nel '37, con la compagnia TofanoMaltagliati rappresentammo diciotto commedie». E andava tutto liscio? «Macché! Ricordo un episodio del '35. Lavoravo nella MerliniCialente-Viarisio. Da due anni la signora Merlini cercava di rappresentare Tovaritch di Deval, ma per due anni il capo della censura, che si chiamava Zurlo, le negò il permesso. Un giorno a Milano vidi i manifesti bianchi e azzurri che annunciavano Paola Borboni in Tovaritch. Una tigre era un gattino rispetto a una Merlini infuriata. Dissi: e adesso, che succede? Successe che la Merlini mise la compagnia a riposo e prese il treno per Roma. Voleva incontrare Benito Mussolini. Ottenne l'appuntamento quindici giorni dopo. Quando tornò a Milano, ci raccontò. La Borboni, che per fare Tovaritch s'era venduta i gioielli, era andata anche lei da Mussolini, dicendogli che voleva rappresentare la commedia. Mussolini s'era preso due giorni di tempo, dopo di che le accordò il permesso. Quando parlò con la Merìini, le disse che non sapeva niente della censura. Aggiunse: "Ho detto di sì alla Borboni, dirò di sì anche a lei. Potrà fare Tovaritch là dove l'avrà fatta la Borboni. Debuttammo al Valle di Roma. In sala c'erano Vittorio Emanuele e Mussolini. Poi andammo a Torino, dove c'era la Borboni. Lei recitava al Chiarella, noi all'Alfieri». E i mostri? Cosa sono i mostri? «Sono i grandi attori, che insegnavano a recitare. I giovani avevano la possibibtà di fare una sera un facchino e la sera dopo un principe. Oggi un ragazzo dice per sei mesi trenta battute, sempre quelle. Che cosa impara? Oggi i mostri non ci sono più. Ci sono i registi. Mi piacerebbe tanto vedere una recita fatta solo da registi». Diventa inevitabile, per Calindri, risabre agb inizi deba carriera, quando, per sua stessa ammissione, non amava il teatro se non da spettatore. «Ho avuto esordi difficib. Per otto anni ho fatto l'ultimo generico. Per primo mi scritturò Luigi Chiarini. "Sei alto e distinto, puoi fare il cameriere", mi disse. La passione arrivò dopo, con Ruggero Ruggeri. C'era una compagnia guidata dal conte Visconti di Modrone, il padre di Luchino Visconti. Si chiamava la "Compagnia dei quattro P". Comprendeva Andreina Pagnani, Lamberto Picasso, Camillo Pilotto e Nicola Pescatori. Visconti voleva fare un teatro d'arte, mentre l'amministratore Polese voleva guadagnare. Non s'intesero, si separarono. Polese aveva qualche amicizia con Ruggeri, che in quel periodo stava a Parigi. Gb offrì un contratto in bianco per andare in Argentina. Aggiunse: ho qui una compagnia pronta. Ruggeri rispose di sì, ma voleva scegliere lui gb attori. Dei Quattro P rimase soltanto la Pa- gnani. Io avevo diciannove anni. Dovevo fare il soldato. Fu lo stesso Ruggeri a chiedere per me un esonero temporaneo, dichiarando che mi avrebbe fatto rientrare in ottobre». Continua: «Fino ad ahora aveva recitato senza entusiasmo. Non avevo abbandonato del tutto l'idea di andare aU'università. Ruggeri, per la propria serata d'onore al Lirico di Milano, preparava L'artiglio di Bernstein. Neh'ultimo atto c'era un cobegiale, che diceva una battuta di saluto e un'altra, che non ricordo, ma che mi fece ridere. Pro¬ vandola, Ruggeri mi interruppe: "No, la dica così, se le riesce". Se le riesce era tutto un programma. In teatro, aUa battuta ci fu un boato. Quel fatto determinò il mio avvenire. Passeggiai per Milano fino ahe due di notte. Pensavo: io dico una cosa, e 1500 persone ridono. Quella sera m'innamorai del teatro». I capocomici. Calindri b chiama mostri, privandob deU'aggettivo sacri. Forse perché in ciascuno di loro c'era un demonio... «Gandusio era terribile. Tofano, Armando Falconi, Dina Galli erano di un'altra pasta. Ma la cosa importante era il rispetto. C'era molto rispetto fra noi. Ho recitato con Franco Volpi per nove anni, dal '46 al '55. Per quattro armi ci siamo dati del lei. Chi parlava con Ruggeri? Nessuno aveva il coraggio. E con Gandusio? Virgibo Tabi lo chiamava il gobbo misterioso». E quanti amori ha visto nascere fra le quinte dei teatri? Quanti odu? «Bernard Shaw diceva che il mondo debo spettacolo è quel mondo dove ci si abbraccia di più e dove ci si ama di meno. Non so quanti amori posso aver visto nascere. Io stesso mi sono innamorato. Quan¬ do fui scritturato da Gandusio, c'era in compagnia, come "amorosa", Roberta Mari. Nel film Felicita Colombo faceva la figlia di Dina Galh. Ci innamorammo e abbiamo vissuto per 55 anni, mettendo al mondo quattro figb». E amori tempestosi? «Più d'uno. Megbo non ricordarti. I protagonisti non ci sono più. Ci sono i figb». E gli ocbi? «Tanti. Ma io preferisco parlare delle rivalità. E' successo anche a me. Avevo avuto successo con L'importanza di chiamarsi Ernesto di Oscar Wilde. Quando l'hanno portata in tv, al posto mio hanno messo Tino Carraro. Non l'ho odiato, ma mi dispiacque. Perché non tenevano conto dell'interpretazione fatta in teatro? La rivabtà era il sale. Per esempio Gassman-Randone nell'Otello, dove si scambiavano le parti. Mi dicono che fossero fortemente antagonistici. E in ciò erano aizzati dal pubbbeo e daba critica: sei più bravo tu; no, sei più bravo tu. Ma anche il duebo MerlmiBorboni con Tovaritch. La Merlini era più efficace, la Borboni più duchessa. E poi c'erano le sorebe Gramatica. Portavano in tv Teresa Raquin. Nel racconto che mi fece il regista Umberto Benedetto, Irma diceva deba sorella: dove prende quebe intonazioni? E Emma di Irma: poveretta, è una pazza. Ermete Zacconi e Ermete Novelh non si sopportavano. Novelh diceva del rivale: anche il nome mi ha rubato». Entrare in arte, come si diceva una volta, era più facile di oggi? «Non è mai stato faebe. Devo dire che, quando ho cominciato io, eravamo 1000,1500 attori. Oggi siamo in 40 mila. Ma oggi i ragazzi non ci pensano lontanamente a imparare. Poco tempo fa, ho tenuto una lezione ad alcuni giovani, a Canale 5. Quando ho parlato deh'importanza deba dizione, uno di questi ha detto: "Quel che importa non è la dizione, è ciò che uno ha dentro". Oggi non ho l'udito di trent'anni fa, ma non sono del tutto sordo. Quando mi capita di vedere un telefilm non sento mai l'ultima sillaba. Se la parola è una sola, va bene. Ma se sono dieci non capisco più niente». Si dice che nel dopoguerra sia cambiato tutto, che sia cambiato anche U pubbbeo. «Il dopoguerra ha provocato una svolta. NeUe case oggi si parla di pobtica, di sport, di canzoni. Si va a teatro per un fatto sociale, senza le battagbe di un tempo». Perché questo disinteresse? «Perché ci sono altri interessi, che prima mancavano: c'è la tv, c'è 10 sport, ci sono i cantanti. Qui tut¬ te le sere si canta. C'è il telecomando. Io sono fiero di essere itabano. Ma devo ammettere che siamo rovinati daba superficialità. Se vediamo un manifesto di Romeo e Giulietta diciamo, sbuffando: ancora! Eppure chi conosce davvero Romeo e Giulietta? Ho visto il mutare delle platee. Nel '46 recitavo neba Via del tabacco di Caldweb, con la regia di Visconti. Ogni sera era una battaglia. A Torino, dopo una scena importante, sono uscito col pubbbeo che fischiava e sono finito fra le braccia di un pompiere grosso come l'Himalaya, che piangeva e diceva: ma questi non capiscono niente. Dopo 11 '46 è cambiato tutto. La guerra ci ha cambiati. Leggevo tempo fa che a Tel Aviv va a teatro il 50, 52 per cento deba popolazione. Se a MUano fosse soltanto il dieci per cento, terremmo una commedia per tre anni di seguito, come a Parigi o a Londra. La guerra ci ha tolto la passione per b teatro». Però oggi un attore può avere una vita meno precaria. C'è la pubblicità. Lei stesso le deve molto. «Ho smesso la campagna del Cynar neb'85 e ancora oggi la gente mi riconosce per quei Caroselli. Una volta mi fermai a far benzina in Molise. Il benzinaio mi guardò emozionato e mi disse: la posso toccare? Gb risposi: guaioli che sono un uomo come lei, mi abbracci». Grazie aba pubbhcità queba degb attori non è più una categoria di affamati. Lei ha mai sofferto la fame? «Quanti pasti ho saltato. Ricordo una tournée estiva ab'Arena di Lodi. Era il 1930. Tutte le sere pioveva. Tutte le sere non recitavamo e tutte le sere non mangiavamo. Così per una settimana. Disperato, U capocomico si rivolse ab'autorità e ottenne di rappresentare uno spettacolo la domenica pomeriggio nel campo sportivo. Scegliemmo L'amore dei tre re di Sem Benelh. Ma avevamo bisogno di due cavabi. Mi mandarono a prenderti al comando dei carabinieri. Erano vecchissimi. Non ero mai sabto su un cavabo, ma quebe bestie erano così mansuete, che non ebbi difficoltà. Nebo spettacolo facevo lo scudiero di un re, che non ricordo più da chi fosse interpretato. Anche lui non era mai sahto su un cavabo. Lo rassicurai. E' buonissimo, gb dissi. Già al primo atto dovevamo cavalcare. Intorno a noi c'era un sacco di gente. Finalmente si mangia, pensai. Si alzò uno squblo di tromba, secondo copione. Ma, a quebo squiho, si scatenò l'inferno. I ronzini partirono in un galoppo sfrenato. Io mi reggevo disperatamente aba criniera. Il primattore fu scaraventato per terra con tutta l'armatura. La recita finì lì». Osvaldo Guerrieri Un secolo di teatro nei ricordi di uno dei grandi interpreti della nostra scena. Gli inizi mitici con mostri sacri come Elsa Merlini o Ruggero Ruggeri. Gli amori egli odi di un mondo cancellato dalla tirannia dei registi. Ipremi e la felicità di recitare alla vigilia dei novant'anni ULTURA I SAG Nell'immagine in basso Salvo Randone, Anna Maria Ferrerò e Vittorio Gassman in «Otello» Qui sotto Ernesto Calindri; a sinistra Elsa Merlini, grande dama del teatro italiano negli Anni 30