MORODER Il dioniso elettronico

MORODER Il dioniso elettronico L'orchestra di bordo. Incontro con il musicista che ha anticipato tendenze e nuove mode MORODER Il dioniso elettronico LBOLZANO A musica la cerco e la trovo, la faccio d'istinto». Giorgio Moroder non sa dire che cosa l'ha fatto diventare a 58 anni uno dei compositori più influenti nel mercato mondiale della musica popolare, colui che è all'origine, insieme con pochi altri, del suono ossessivo, martellante che ci incalza tutti da una trentina d'anni. Un delirio elettrico che negli Anni 70 e oltre, ai tempi del primo John Travolta, chiamavano disco e ora chiamano dance, e da cui è schizzata fuori l'odierna musica techno, un continuo bum-bumbum-bum, ore e ore di soli colpi, mazzate di batteria e di contrabbasso, cascate di ritmo nudo. Moroder ha contribuito non poco a creare quest'universo sonoro da discoteca e da strada, o da città intera, come succede a Berlino durante l'annuale Love Parade quando un milione di giovani seminano dappertutto i loro fuochi ritmici da mille e mille altoparlanti, nei cespugli e nei portoni, nei club e sui marciapiedi. L'incontro con Moroder avviene fra i suoi quadri, esposti in una mostra al nuovo Centro Trevi fino al 27 settembre. Moroder da un po' fa anche il pittore, ma a modo suo. Per capire come lavora, basta mettere a confronto le sue opere con quelle che nella stessa mostra espone suo fratello Ulrich. Un breve ritorno a casa, innanzi tutto, per i due Moroder. Hanno lasciato da anni Ortisei, dove sono nati, e uno, Giorgio, vive da miliardario a Beverly Hills con la moglie messicana Francisca e il figlio Alessandro in una villa con tre auto e una piscina, e l'altro, Ulrich, sta in un appartamento sotto gli splendidi giardini del Belvedere a Vienna. I quadri di Giorgio sono esposti sopra, al primo piano del Centro, quelli di Ulrich sotto. Il primo è una celebrità internazionale nel business dello spettacolo, il secondo è noto fra gli amanti della pittura. Giorgio «dipinge» al computer: prende un'immagine allo scanner e la frastorna, la rielabora in tanti modi accarezzandola col mouse e cliccando a ripetizione. Cita nei suoi quadri l'Adamo di Michelangelo, i pesci di Klee, gli oggettini mobili di Calder, ricorre insomma ad archetipi dell'arte figurativa e li trasforma in stereotipi da manipolare e colorare liberamente. In modo analogo agisce a volte anche nella musica. Il fratello Ulrich invece va in cerca di pigmenti per i suoi colori, mescola le polveri preziose con colle, oli e solventi, e passeggia, va in giro ad osservare la natura per poi rappresentarla in modo informale, con sgocciolamenti alla Pollock e garbugli alla Wols, ma secondo tracciati meno casuali. L'esito è luminoso, i colori sono bellissimi e vitali. Due modi agli antipodi di fare arte. L'uno tecnologico, l'altro manuale, antico. Eppure i due fratelli si vogliono bene: Ulrich espone anche 102 dischi dipinti su pannelli, un omaggio ai tanti Golden Globe e Grammy Awards vinti da Giorgio. Per la verità Giorgio Moroder s'è sempre interessato d'arte, fin da quando cominciò a frequentare da bambino la scuola d'arte a Ortisei, arrivando poi a esporre in America e in Europa alcune sue sculture al neon. Un'attività per lui minore, che però adesso s'espande grazie all'uso del computer. Giorgio è un devoto del computer, delle nuove tecnologie. La sua fortuna ha coinciso con l'avvento dell'elettronica, che ha capito al volo. Lo dice lui stesso. E improvvisa un happening. Spinge il suo pianoforte Yamaha bianco a coda che s'è portato d'oltreoceano e lo accosta a un suo grande quadro dove si vedono le ombre d'un piano e d'un pianista. E' il primo atto. Moroder si allontana, guarda l'insieme pianoforte-quadro, e dice: «Sono seduto al piano soltanto nel quadro. Sono un compositore presente-assente, virtuale». Comincia il secondo atto: Moroder si siede al piano, la figura nel quadro diviene finalmente la sua ombra, suona prima un concerto di Rachmaninoff, lo stesso attacco con cui Tom Ewell tentava di sedurre Marilyn Monroe in Quando la moglie è in vacanza, poi la Sonata opera 27 n. 2 di Beethoven, Al chiaro di luna, infine Takefive, celebre brano jazz eseguito a suo tempo da Dave Brubeck al piano e da Stan Getz al sax: «Non so suonare come si deve - ammette Giorgio Moroder, calzoni Hugo Boss, camicia jeans, cronometro Audemars Piguet, capelli forse tinti, masticando sempre gomma -. Non conosco la musica come non la conoscevano i Beatles, che pure hanno fatto una rivoluzione. Però so questo: che tutte le musiche mi finiscono nel computer e nel sintetizzatore, trovano posto nella musica popolare, commerciale, quella che voglio fare io, che ho sempre voluto fare. Non tanto per i soldi: guadagno sui quattro, cinque milioni di dollari l'anno, adesso un po' meno; ma per la soddisfazione d'essere in testa nelle classifiche: sono stato primo 50 volte tra Europa e America, e ho 15 canzoni fra le 5000 più note di tutti i tempi. La mia What a feeling, dal film Flashdance, è al numero 28 nella classifica d'un libro appena uscito. Mentalità americana? No, da Val Gardena. In questa valle, su seimila abitanti, tre anni fa c'erano sette Ferrari». Il sintetizzatore, lo strumento elettronico che genera, modifica, organizza suoni, segnò la svolta nella carriera di Moroder. «Allora, nel '66-67, era largo tre metri come un armadio, adesso è come un computer portatile. Ce l'aveva un mio amico a Monaco, il compositore Eberhard Schoener, uno serio, uno classico, che aveva studiato. Io avevo fatto lo zingaro per l'Europa e avevo smesso di suonare la chitarra perché vedevo attorno a me vecchi musicanti distrutti da anni di routine. Volevo essere io a comporre musica per altri. Se non hai quest'ambizione, questa grinta, non farai irai nulla. E quando vidi quel bestione, il sintetizzatore del mio amico, capii che poteva essere usato in senso commerciale. Altro che Karlheinz Stockhausen, il maestro dell'elettronica per pochi: io mi rivolgo a tutti. Quello era il secondo sintetizzatore al mondo, da quando aveva cominciato a venderlo l'inventore Robert Moog. Il primo l'aveva Walter Carlos, che adesso si chiama Wendy perché ha cambiato sesso: ebbe un gran successo con il disco Switched on Bach, Bach acceso, tutto elettronico». Moroder sprigionava dal suo sintetizzatore i suoni di un'intera orchestra, rifaceva tali e quali ottoni ed archi, ma in più trovava suoni nuovissimi, a esecuzioni e arrangiamenti poteva dare sfondi e vibrazioni impensabili, tanto che anche le canzoni tradizionali acquistavano un abito folgorante, con cavità sonore balorde, sporche, o al contrario siderali, con echi di spazio puro. «Composi Love to love you baby, Mi piace amarti, scoparti, per Donna Summer nel '75, che fu l'anticamera della disco-dance, e poi, sempre per Donna, Ifeel love nel '78, il primo brano interamente al sintetizzatore, il prototipo della musica techno: colpì il regista Alan Parker, che mi chiamò per la colonna sonora di Fuga di mezzanotte. E fu Oscar, il primo, allo Shrine Auditorium. Un'emo- zione da non reggermi, e meno male che Dean Martin mi tirò su con le sue battute». Altri due Oscar vennero presto, per Flashdance e per Tàke my breath away, Prendi il mio respiro, dal film Topgun con Tom Cruise. Un altro successo è stata la colonna sonora di American gigolò, con Richard Gere e con l'intensa, macerata Lauren Hutton. E ancora: le produzioni di Barbra Streisand, Cher, Elton John, di decine e decine di gruppi e di cantanti, e la canzone Un'estate italiana per i mondiali di calcio Italia '90, e prima ancora l'inno per i Giochi di Seul e le Olimpiadi di Los Angeles. Moroder gioca insomma a tutto campo, inventa suoni e mu-. siche per tutte le occasioni, nella diffidenza della critica più esigente. E' da quarant'anni che è in sintonia con il gusto del pubblico, una durata lunghissima in quest'epoca d'usa e getta: «Quando un suono è logoro, senza più feeling, lo sento subito. E cambio. Tutto qui». E' la sua spiegazione. «Difficilissimo dire quale sarà il sound di domani - continua -. L'udito della gente è oggi infinitamente più sofisticato e ricettivo di ieri. Oggi tutti ascoltano tutto. Dov'è il silenzio? Sparito. La musica, il ritmo pervadono tutto il tempo. A volte servono per eccitarsi, ma spesso anche per rilassarsi, per farsi viaggi in fuga dal ritmo velocissimo dei videoclip, della tv e dello stesso cinema, ormai un inferno. Ho visto Armageddon: ogni scena dura pochi secondi fra altissimi fragori. Insomma, il suono e la visione a volte sono in combutta, esplodono insieme, a volte sono agli antipodi per bilanciarsi. E tante persone si fanno la loro musica da sé: bastano quindici milioni per metter su uno studio completo, con sintetizzatore, computer e tutto quanto. Un fenomeno molto democratico. Ma c'è il problema che ci son fuori troppe etichette discografiche, migliaia e migliaia, e la concorrenza è spaventosa. Il risultato è una confusione totale, la globalizzazione non c'è soltanto in economia. A Londra, New York e Los Angeles, le tre capitali della musica, c'è il rap, il rock, il punk, il reggae, l'alternativo, la techno, la new age, la world music, con apporti e contaminazioni di musica araba, sudamericana, asiatica, di tutto il mondo, e altro ancora. Chi vincerà? Forse nessun filone. Forse tutto è destinato a coesistere. I giovani amano anche l'ibrido, la varietà simultanea, l'artificio elettronico che va a braccetto con la semplicità naturale. Io affronto tutto questo. Mi metto in studio e cerco suoni incidendoli al computer, che è molto meglio del registratore: posso infatti cambiare il tempo senza stravolgere il suono, e cambiare tonalità senza alterare il ritmo. Si ottengono gli effetti che vuoi. E dalla finestra vedo una Los Angeles sotto un cielo poco azzurro, una città fantastica in mezzo a fumi e nebbie. Mio fratello si gode il Belvedere a Vienna, ma la realtà vera è quella che vedo io, la realtà delle metropoli, delle auto, della massa, la nostalgia dello spirito, della grazia, degli affetti né possessivi né competitivi, di uno spazio mentale da pescarsi chissà dove, dentro di sé, nel passato, fra le stelle, chissà dove. Provo e riprovo, sperimento al sintetizzatore. Non c'è altra via. Adesso ho pronti un minuetto alla Boccherini e una canzone nuova cantata da una ragazza: li alterno, li contamino, li fondo, qualcosa combino. Se funziona, lo sapremo presto». Ciò che colpisce in Giorgio Moroder è che non ha nulla da dire sui suoi sentimenti e sulla sua vita d'ogni giorno. Non fuma, non beve, soltanto un po' di whisky e vino la sera. Non va da nessuna parte. Mai in discoteca; solo una volta entrò nello Studio 54 a New York e s'è annoiato. Non frequenta la gente del cinema: «Tutti matti, tutti nevrotici». Un giorno incontrò lo scrittore Charles Bukowski, di cui c'è un ritratto nella mostra, e Bukowski ubriaco tirò fuori un coltello e lo chiamò brutto ebreo: «M'è bastato». E tuttavia è frenetico, ha una specie di febbre negli occhi piccoli e neri. Compositore, produttore, artista, manager, ha tentato persino di fare l'industriale a Modena producendo una superauto sportiva, ma s'è fermato nel '90: «Ho il prototipo, che vale sui quattro miliardi». Ha acquistato Metropolis di Fritz Lang, l'ha colorato e musicato, ma ci ha rimesso. «Chi ha detto che l'ispirazione è durissimo lavoro? Giusto. Lavoro 1215 ore al giorno. Ho dieci canzoni famose ma ne ho incise 800, e altre 200 le ho da parte». Moroder una macchina? Troppo facile. Il rabdomante tecnologico, il Dioniso di massa del nostro tempo ha la sua culla segreta sotto lo Sciliar e il Sassolungo nei primi Anni 50, il suo periodo «più bello». Di pomeriggio alle cinque, di nascosto perché avrebbe dovuto studiare, nella casa di suo padre albergatore («Moroder viene da muréda, casa murata, la mia famiglia è a Ortisei dal '400»), cercava di ascoltare alla radio l'American Forces Network da Francoforte: un'impresa, perché lo spazio della sintonia era minimo ira mille scariche e va-e-vieni del volume. Ma finalmente alle cinque arrivava la musica richiesta dai soldati americani in Germania: Moroder scopriva Elvis Presley, il Fats Domino di Blueberry Hill, Gene Vincent, tanti altri. C'era pure Radio Luxembourg, e più tardi II discobolo di Vittorio Zivelli sul secondo programma della Rai, alle 13 e 50 in punto d'ogni giorno. «Quel ritmo, quel suono rock mi dava l'ebbrezza. C'era il gusto della trasgressione, della libertà. E' nato tutto allora. Con il rock. I miei mi mandarono dai salesiani a Rovereto perché ero un discolo, ma io comprai lo stesso una chitarra da seimila lire e un libretto di trenta pagine con gli accordi pronti. Cominciai così, suonando al caffé Demetz d'Ortisei. Guadagnavo e avevo le ragazze. E una mattina decisi di non svegliarmi per non dare l'esame di riparazione in matematica. Non divenni geometra. E poco tempo fa mia madre, davanti alla piscina a Los Angeles, mi continuava a dire: "Ah, se facevi il geometra! Lavoravi in Comune e stavi meglio". Santa mamma. Ma io da Los Angeles non mi muovo più. Per me è U centro della musica):. Claudio Altarocca Compositore e miliardario ha firmato la «disco», la «techno» e colonne sonore da Oscar Qui sopra Donna Summer, «Love to love you baby» fu scritta per lei nel 1975 A Bolzano presenta col fratello Ulrich i suoi quadri dipinti al computer Qui sotto Giorgio Moroder, la passione per la musica incomincia negli Anni 50 ascoltando Radio Luxembourg