CAMPANELLA, IL POETA CHE DAL CARCERE GRIDA DIO

CAMPANELLA, IL POETA CHE DAL CARCERE GRIDA DIO CAMPANELLA, IL POETA CHE DAL CARCERE GRIDA DIO Una natura indomita, un calvario di torture e sevizie ER slancio e vigore, certe poesie di Campanella grandeggiano come i pini larici della sua bella Calabria. Ma mentre il pino lancio distilla resina profumata, la poesia di Campanella distilla lacrime e sangue. Per esempio il sonetto dedicato al carcere dell'Inquisizione romana, dove per un certo periodo egli fu rinchiuso contemporaneamente a Giordano Bruno, è tutto soffuso di orrore: «Ch'altri l'appella antro di Polifemo,/ palazzo altri d'Atlante, e chi di Creta/ il laberinto, e chi l'Inferno estremo/ (che qui non vai favor, saper, né pietà),/ io ti so dir; del resto, tutto tremo,/ ch'è ròcca sacra a tirannia segreta». Eppure qualche filisteo ha tentato di farci credere che quel carcere fosse una specie di residence. Ancora peggiore, se possibile, era il carcere nel Castel Nuovo di Napoli, dove Campanella trascorse ventisette anni e scrisse la maggior parte di queste poesie. Solo una natura indomita, coriacea e rocciosa come la sua poteva resistere a quelle atroci torture. Io inorridisco già a leggerle, certe cose. Il 31 gennaio del 1600, Campanella venne rinchiuso nell'orrida segreta ipogea detta «del coccodrillo». Ne uscì infermo e stremato, ma questo non impedì agli aguzzini del Cielo di metterlo per due giorni di seguito all'infame supplizio «del poledro» o «cavalletto». E tutto con la benedizione di Sua Santità Clemente VTfI, che intanto pregustava il rogo di Giordano Bruno. Chi, dinanzi a simili orrori, è capace di conservare il cosiddetto «distacco critico», io non lo invidio né come uomo, né come studioso. Il volume raccoglie tutte le poesie di Campanella che ci sono pervenute, compresi i cinque sonetti resi noti da Germana Ernst appena due anni fa nella rivista Bruniana & Campanalliana. L'introduzione e il commento sono di Francesco Giancotti. Ecco finalmente uno studioso serio e misurato! Non scrive lungagnate e non si sovrappone mai all'autore, ma bada solo a fornirci un'edizione filologicamente accurata di questi testi poetici. Giancotti mi fa l'impressione di un gran signore della cultura e della filologia in modo particolare. Visto che egli ha una predilezione per i «filosofi poeti» o ((poeti architettonici», come li chiama Campanella, mi auguro cordialmente che voglia dedicare la sua fatica anche a Giordano Bruno, grande filosofo e grande poeta a un tempo. La vita di Campanella, tra carcere, torture e sevizie di ogni genere, fu un calvario spaventoso, anche se, fingendosi pazzo, riuscì a sfuggire al rogo. Come poi trovasse la forza di scrivere tanti libri e tante poesie lo sa il cielo. Probabilmente le sventure, anziché fiaccarlo, lo corroboravano. Viene in mente l'aforisma di Meister Eckhart: «L'animale più veloce che vi porti alla perfezione è la sofferenza». Ma se si porge l'orecchio ai frequenti gridi di dolore che si levano da queste poesie, ma anche da altri scritti dell'autore, allora viene in mente l'epitaffio deU'infelice poeta Christian Gùnther: «Pellegrino, leggi in fretta e riprendi il tuo cammino, altrimenti la sua stessa polvere ti contagerà d'amore e di sventura». C'è però ima differenza: Gùnther mise sotto accusa lo stesso Dio, mentre Campanella continuò a cantare la lode di quel Dio cristiano in nome del quale veniva tenuto in carcere e torturato. Una forma di pazzia anche questa. Più logico sciogliere inni al sole, cui è dedicata la meravigliosa elegia che occupa le pagine 453455: «Tu sublimi, avvisi e chiami a festa novella/ ogni segreta cosa, languida, morta e pigra./ Deh! avviva coU'altre me anche, o nume potente/ cui più ch'agli altri caro ed amato sei./ Se innanzi a tutti te, Sole altissimo, onoro,/ perché di tutti più, al buio, tremo?/ Esca io dal chiuso, mentre al tuo lume sereno/ d'ime radici sorge la verde cima». Mi pare che nella poesia ci sia qualcosa di lucreziano, nonché di neoplatonico. Per capire l'ardente invocazione alla luce bisogna sapere che circa la metà della sua vita (1568-1639) Campanella la trascorse al buio, ossia in carcere. Un po' come la marmotta. Incominciarono a mettercelo quando aveva poco più di vent'anni. Ma qui vorrei soffermarmi su un episodio, sul quale i biografi per lo più sorvolano. A Padova, dove si era rifugiato per sfuggire alle grinfie dell'Inquisizione, egli, all'inizio del 1593, venne coinvolto in un'inchiesta per reato di tentata o perpetrata sodomizzazione ai danni del generale dell'Ordine domenicano, il monregalese Ippolito Maria Beccaria. La turpe e brutale azione si sarebbe svolta nel convento di S. Agostino; ma a compierla o a tentarla furono evidentemente altri frati, visto che Campanella fu riconosciuto innocente e prosciolto. Beccaria sodomizzato! La cosa è turpe e rupugnante ma a volte il diavolo sa prendersi le sue rivincite. Senza approvare una sì atroce punizione, mi limito a dire che Beccaria era uno dei peggiori aguzzini dell'Inquisizione. Fu soprattutto lui a volere la reiterata tortura di Giordano Bruno, di cui controfirmò anche la condanna al rogo. Anche contro Campanella, beninteso, Beccaria fece del suo meglio come persecutore. Ma lasciamo stare il persecutore e parliamo delle vittime, cui la posterità ha assegnato posti molto alti nella repubblica delle lettere. Campanella e Bruno hanno molte cose in comune, ma sono anche profondamente diversi. Difficile stabilire se i due si siano mai conosciuti di persona nel carcere dell'Inquisizione romana, dove i prigionieri erano «separati l'uno dell'altro in alcune piccole e anguste celle», senza poter veder altro che un po' d'aria «attraverso basse finestrelle». Ma se si fossero parlati, sicuramente avrebbero avuto difficoltà a capirsi sul piano speculativo. L'interesse di Campanella era fondamentalmente teologico-politico; quello di Bruno principalmente filosofico e gnoseologico. L'ideale di Campanella non era uno Stato liberale, bensì una teocrazia omniamplettente, che ammaestrasse le coscienze e regolasse le azioni degli uomini, compresa quella di sposarsi e di fare figli. Siamo insomma allo Stato etico, dove il destino dell'uomo dovrebbe compiersi come quello dell'ape nell'alveare. Bruno, viceversa, rivendicava la libertà individuale e di pensiero. Aveva una concezione aristocratica della cultura, qual è in effetti, e non sarebbe stato disposto a dare in affitto la propria testa allo Stato. Anche i loro caratteri erano diversi: Campanella, che non mancava di astuzia, seppe in qualche modo adattarsi alle circostanze e sfuggire alla pena capitale; Bruno era ingenuo e, disdegnando ogni sorta di compromessi con i propri principi, si sacrificò alla filosofia. In breve, Campanella ha molto del visionario e ricorda da vicino il suo conterraneo Gioacchi¬ no da Fiore. Bruno è anzitutto e soprattutto un filosofo. Ancora una cosa: Campanella resta radicato nel cristianesimo, mentre Bruno ne esce completamente, tanto che lo si potrebbe definire un pagano costretto a errare in un'Europa cristianizzata e impretagbata. Sono due grandi, anzi grandissime figure, ma in comune hanno, tutto sommato, solo la sventura. Anacleto Verrecchia Per ventisette anni rinchiuso nel Castel Nuovo di Napoli, vittima dell'Inquisizione, sjuggl al rogo fingendosi pazzo: cantò la foce, teorizzò l'utopia di uno Stato etico LE POESIE Tommaso Campanella Einaudi pp. CUX-693 L. 75.000. Un ritratto di Tommaso Campanella. La raccolta delle sue poesie esce da Einaudi a cura di Francesco Giancotti

Luoghi citati: Bruno, Calabria, Europa, Napoli, Padova