A VENEZIA, DOVE SI SPEGNE L'INFERNO TECNOLOGICO di Lorenzo Mondo

A VENEZIA, DOVE SI SPEGNE L'INFERNO TECNOLOGICO A VENEZIA, DOVE SI SPEGNE L'INFERNO TECNOLOGICO Una città ritrovata nella guida sentimentale di Barbaro E pietre di Venezia, morte a Venezia, Venezia salvata...Sono definizioni e immagini che vengono alla mente da luoghi illustri della letteratura mentre leggi Venezia, la città ritrovata di Paolo Barbaro. Per accorgerti come il «ritrovamento», che presuppone quelle letture, suggerisce in realtà uno sguardo diversamente orientato, straniato, rispetto ai viaggiatori, gli esteti, gli amanti di ieri. Non mi riferisco ai riflessi della cronaca di cui l'autore tiene conto, agli inevitabili aggiornamenti: lo spopolamento, la perdita di lavori riconoscibili (essenziali per un tessuto comunitario), lo strapotere del turismo, l'inquinamento, il dissesto idrogeologico e ogni altra forma di empietà. Sono dati che concorrono a profilare i lineamenti di una città alla quale sembrano però connaturati il rischio e la caducità, un presagio di finimondo. Nascono, questi rilievi, dalle avvisaglie fumiganti di Marghera, dalla memoria delle isole spro¬ fondate nella laguna con i loro porti, eremi, coltivi. Basta a sintonizzarti la visione, che si presenta dall'aereo, di quell'abitato a forma di pesce, una terra immersa o emersa - non si sa bene - che affida il suo galleggiamento a intere foreste subacquee: marce o pietrificate? Basta la sensazione improvvisa che i suoi innumerevoli ponti abbiano soprattutto il compito di agganciare le isole, tenerle ferme nel vento. E ancora, i colori bellissimi della decomposizione sui suoi muri poveri, le acque alte, sempre più alte, che costringono gli abitanti a peripezie di domestici Robinson. Ma affiora anche, per quanto inespressa, una apprensione più acuta e fonda. Come se una bellezza così rara e compiuta che non tollera incrementi e manomissioni, come se lo svettare del suo fiore di pietra, potesse attendersi soltanto la ricaduta, la dissoluzione. Per¬ suaso semmai, lo scrittore, che se nuovo ha da essere in Venezia, informatica o altro, deve sposare la sua fragilità, contendere con lei in leggerezza ed estro. Di questa bellezza che riesce a tratti intollerabile, Barbaro raccoglie le prove con voce sommessa, ricorrendo anche all'arguzia per proteggersi dal lirismo e dall'eloquenza. Conosce ogni postura e piega della sua città di elezione. Entra con famigliarità nel bizzarro labirinto, anche lessicale, di calh, campi, campielli, sottoportici, corti, fondamenta, «rii terrà». Sa intrattenere i più ritrosi fantasmi della storia e della quotidianità. Non ripete l'ammirazione per i monumenti celebrati, i luoghi deputati al turismo colto o di massa. San Marco compare appena in un'ora solitaria che svela, tra oro e tenebra, il suo fascino di grotta ma¬ rina. Contano piuttosto la facciata anonima che «trema di bellezza e di fessure», le cupole che si gonfiano come aerostati, il memento di una lapide cimiteriale, la vera di un pozzo, il portentoso giardino serrato tra casupole, la pioggia «goldoniana» che resuscita ciacole tra le altane... E poi, hanno un bel dire gli urbanisti che Venezia è la più giovane delle città storiche abitate. Ma dove mettono l'acqua, l'aria, l'atmosfera, la reciproca permeabilità di storia e natura che la rende unica al mondo? Banchi di sabbia e fondi melmosi, stagnazioni e maree, uccelli, granchi e fiori, passi che risuonano nella notte, richiami dialettali che si riappropriano della città nelle oasi del silenzio. Sono queste presenze e sopravvivenze che la rendono vivibile e alla fine necessaria, al di là dei suoi malintesi con la mo¬ dernità. Sembra alla passione civile di Barbaro che la perielitante Venezia custodisca il germe, l'idea di una città possibile, valida per tutti i tempi e Paesi. Rappresenta una contestazione vivente - per se stessa e per i residenti e resistenti - delle disumane megalopoli moderne. Per questo la città del medioevo, dell'abbandono, dello sprofondamento va difesa con trepida ostinazione: «...il senso del tempo che non passa completamente, continua dopo di noi, per gli altri che amiamo; il valore della bellezza-città, con le sue potenzialità senza fine; l'idea stessa di città, che non può più crescere solo come ricorrente inferno tecnologico; il soffio improvvisamente tenero d'una esistenza meno convulsa, d'una necessaria "lentezza"». E' difficile, quasi impossibile ormai, dice Barbaro, ambientare un libro, un romanzo a Venezia, «sfondo troppo invadente e usato». Lui ci è riuscito, mi sembra, perché non si è limitato a creare uno sfondo. Le sue pagine ti catturano proprio perché i pochi interlocutori umani assolvono poco più che la funzione di segnaposto, aiutano a introdurre il tema e si fanno da parte. Lasciano che Venezia, concedendosi alla voce del diarista itinerante, si racconti, orgogliosamente e insieme pudicamente, da sola. Lorenzo Mondo VENEZIA, LA CITTA' RITROVATA Paolo Barbaro Marsilio pp. 236. L. 26.000

Persone citate: Barbaro, Paolo Barbaro, Paolo Barbaro Marsilio, Robinson