Per i medici siamo solo carne malata. E forse è giusto così

Per i medici siamo solo carne malata. E forse è giusto così Non tecnico ma umano Caro OdB. leggo sulla Stampa la tragica lettera sulla mancanza di umanità di «certi» medici. Lei avrà visto in tv i ceffi degli oncologi ufficiali e sentito le loro espressioni da querela nei confronti di Di Bella all'inizio della famosa querelle. Quale tipo di «riscontro oggettivo» ci si poteva attendere da simili personaggi? Non ho elementi per giudicare l'efficacia o meno di quella cura: avrei parecchio da dire sul modus operandi, non tecnico ma umano, di certi illustri chirurghi che mi annunciarono che mio figlio malato di tumore poteva essere operato, sì, ma «tagliandolo in due», cosa fattibilissima, ma lei capisce priva di senso pratico. Il tutto detto, a me, il padre, in piedi, da un camice bianco che, guardando un collega seduto e tenendo un telefono in mano, parlava con me! Il tutto nella civilissima Bologna. Superata la tentazione del suicidio siamo riusciti a far operare mio figlio in Francia da un chirurgo (che Dio - se ci fosse - dovrebbe benedire) che ha asportato il tumore, lasciando a mio figlio una lieve zoppia («tagliandolo in due», vero?). Prima e dopo cure tradi¬ Per i medici siamo solo carne malata. E forse è giusto così zionali, chemio etc. Ricaduta, altra operazione, protesi di 25-30 cm nel braccio, altro trapianto di cellule staminacee chemio etc. Mio figlio continua a studiare il pianoforte: è vivo e suona. Quel che volevo dire (mi scusi se l'argomento mi trasporta) è che in Francia, nei diversi ospedali e centri terapeutici, ci siamo trovati di fronte, oltre che a un'organizzazione tecnologica e non da altro pianeta, soprattutto a una «umanità» che si estrinsecava nel fatto di poter parlare con il primario, in uno studio, seduti, senza nessun telefono, telefonino, segretaria, assistente e via col diavolo a interrompere il colloquio che può durare tanto quanto è necessario a riprendersi da ovvie crisi di disperazione. Dal primario in giù fino al personale delle pulizie, le persone hanno un concetto del proprio lavoro che non è solo attesa di scatti, ferie, pensioni (i famosi «diritti») ma tanto e soprattutto dei «doveri» e del piacere del proprio lavoro che diventa una gioia quando - ahimé non frequentemente - i risultati di tanta fatica e tanto amore sono positivi. Cosa dire? E' verosimile che la furbastreria camorristico-mafiosa all'italiana devasti tutta l'Europa e finisca col trionfare. Gli appoggi e gli interessi in ogni senso riguardo la droga, l'ovvia considerazione che si possono guadagnare miliardi chiudendo uno o due occhi sono tentazioni e sono minacce senza confine. Oggi però ancora esistono (non tanto qui da noi) persone che ritengono il proprio lavoro un compito da svolgere al meglio. Certo, tutto questo è frutto di ben altra cultura, di ben altri governi e di una benefica lontananza da Santa Madre Chiesa e le sue organizzazioni assistenziali. Cosa le volevo dire? Beh, insomma, uno sfogo con una persona (lei) che per molti versi non sento estranea. Dovesse mai fare uso pubblico di questi miei scritti, vorrei che omettesse i miei dati che, comunque, qui aggiungo per lei. XY Per ringraziare Egr. Sig. OdB, il 3 agosto ha intitolato la sua rubrica «C'è anche la sensibilità fra le qualità dei medici». A questo proposito le scrivo per ringraziare il personale medico e paramedico del pronto soccorso dell'Ospedale SS. Annunziata di Savigliano che ho avuto modo di conoscere durante un mio breve ricovero, 1-2 agosto '98, a seguito di un pauroso incidente dal quale sono uscita miracolosamente quasi illesa. Sono stata visitata e curata da più medici e assistita da più infermieri che si sono rivelati oltre che competenti molto sensibili e premurosi e che hanno cercato di alleviare con tanta umanità ogni mio più piccolo malessere, regalandomi spesso un sorriso, una parola di incoraggiamento o una battuta di spirito per superare il terrìbile spavento subito. La loro gentilezza è stata tale che ricordo perfettamente il volto di ognuno di loro e, quando sono uscita, il mio primo sentimento, oltre la felicità di tornare a casa, è stato il rammarico di non aver potuto stringere la mano a ciascuno di loro per ringraziarli. I postumi dell'incidente li sentirò ancora per molti giorni, ma saranno alleviati dal ricordo della loro sensibilità. Silvia Tresso Torino Queste due lettere, scelte tra le tante che mi sono pervenute dopo quella del 3 agosto, sembrano forse opposte, ma non lo sono affatto. Parlano tutt'e due di sensibilità. Quella del padre mi ha sconvolto soprattutto perché è la dimostrazione che la tragedia di un malato è anche la tragedia di chi lo ama. E, a volte, la più grave è quest'ultima. Il malato può anche illudersi e persino rassegnarsi, ma chi ama, no, non riuscirà mai ad accettare la conclusione inevitabile. Ed è per questo che un medico non dovrebbe peccare di insensibilità. Ma è la stessa professione a spingere il medico a non cedere ai rispetti umani, a non lasciarsi tentare da sentimenti e precauzioni che potrebbero indebolirlo nei confronti del paziente, che potrebbero farlo esitare, soccombere a una diminuzione di fiducia in sé. E così tende ad abituarsi al peggio, a considerare chi ha in cura un semplice pezzo di carne malata. Non parlo tanto per parlare. Ne conosco, di medici. Sono passato in vita mia da un bisturi all'altro. Forse non sono stato fortunato coi medici, ma anche loro non lo sono stati con me. Ho patito dolori che credevo di non poter patire, ma il peggio è stato vegliare per tanti giorni l'agonia di mia madre, la sua fatica di riconquistare degli sprazzi di lucidità per poi soffrire ancora di più. Probabilmente dirò una sciocchezza ma forse è necessario che il medico non sia di cuore troppo debole e si comporti come fosse un estraneo, non si lasci coinvolgere sentimentalmente. Altrimenti tutto finirebbe nella confusione. E' davvero una sciocchezza? Non lo so. Scrivendo queste righe mi sono impantanato in una di quelle diatribe che non hanno mai fine e che non approdano a nulla. Tranne che alla ennesima constatazione della nostra incapacità di tirar fuori qualcosa di comprensibile dall'esistenza. Se non incertezze, dubbi, pentimenti, angosce, errori e vergogne. Chino su mia madre agonizzante, addetto a tenerle ferme le mani per impedirle di graffiarsi, pensai quanto sarebbe stato misericordioso per lei e per tutti che si spegnesse presto, ma poi mi folgorò il sospetto di commettere un delitto solo a pensarlo. La guardavo e lei mi guardava, e ancora una volta mi sentii giudicato. Avrei desiderato di crepare lì, in quel preciso momento, ma poi dovetti affrettarmi a stringerle le mani che imprudentemente le avevo lasciato libere per evitare che si lacerasse ulteriormente. [o.d.b.] LETTERE AL GIORNALE: il lunedi' di o.d.È.

Persone citate: Di Bella, Madre Chiesa, Silvia Tresso

Luoghi citati: Bologna, Europa, Francia, Savigliano, Torino