In calesse fra i sapori di Sicilia

In calesse fra i sapori di Sicilia In calesse fra i sapori di Sicilia Merenda con pane e fave sulle rive di Fiumecaldo LLORA si andava in ferie, o, meglio, in villeggiatura nei mesi di maggio e di settembre. In Sicilia, in aggio, le campagne verdeggiavano di fave, già molli, dolciastre, ordinate in fila nei baccelli. Si potevano mangiare in tanti modi: crude col pane, miste ad uova per farne delle frittate, ridotte in minestra ricca di erbe profumate, con la pasta che usualmente le donne facevano in casa. In settembre erano già maturi i fichidindia le cui siepi proteggevano le case campestri, o si ergevano spinosi e solitari sui cigli, o lungo i dirupi battuti dal vento favonio. I fichidindia si potevano mangiare la mattina col pane, e c'erano quelli gialli, succosi, o i rossi in color vermiglio, in cui il sole ridendo si specchiava, e perfin i fichidindia dalla polpa candida come velo da sposa. Era una villeggiatura «mirata», «finalizzata», fatta per giunta nei mesi più belli dell'anno per la delicatura del clima, per il fresco rincuorante del mattino e per i colori del giorno che brillavano sui tanti uliveti. Allora, come i vecchi sanno, la fame era grande, come quella che oggi hanno i popoli sottosviluppati. Il mio paese, Mineo, nel Catanese, era arroccato a cinquecento metri di altitudine, e aveva una lunghissima storia. In tutti i paesi, allora, l'ottanta per cento erano contadini, che sull'alba partivano verso i loro lontani poderucci o verso i feudi assolati, per tornare la sera. Mio padre, essendo sarto, apparteneva alla cerchia degli artigiani. Aveva bottega nella stradalunga, purtroppo lavorava pochi mesi l'anno, aveva sposato, all'età di 21 anni, mia madre, Giuseppina Casaccio, ultima di ventiquattro figli, che da poco era tornata, con fratelli e sorelle, da New York dove aveva lavorato in alcune camicerie. Dagli intimi, era chiamata Giosi, comunemente donna Pape. Noi eravamo cinque figli: il qui sottoscritto, Salvatore, o Turi, Vincenza, o Enza, Maria, Ida. Facevamo la villeggiatura sull'altopiano di Carnuti dove mia madre, con i suoi risparmi, aveva comprato un bell'appezzamento di terra. Un asino di nome Baiardo Prima che nascessero le mie sorelle raggiungevamo quell'altopiano, dirimpettaio a Mineo, scendendo a valle a Fiumecaldo, un fiumicello dolce, leggermente spumeggiante, chiamato in tal modo perché una polla d'acqua calda gli si immetteva uscendo fuori da una roccia. Nella salita mio padre metteva me e mio fra- tello, uno di qua e uno di là, dentro due cofani attaccati al dorso dell'asino. Diversi artigiani allora avevano il calessino, e fra questi c'era mio padre. Il nostro era piccolo di legno di noce, e bardature per la bestia. Stretti stretti riuscivamo, in sette, a sederci nel calessino. Era difficile possedere, per il costo, un cavalluccio, sicché si faceva ricorso all'asino. In quei tempi erano diffusi per i paesi italiani molti libri, con varianti notevoli, che facevano parte del ciclo de la Chanson de geste. Chi non conosceva la storia dei paladini di Francia, o i Reali di Francia, o le gesta di Fioravanti, o quelle di Buovo d'Antona? Del Guerin Meschino, per esempio, mio zio Michele, sposo ad una sorella di mia madre, zia Agrippina, senza figli, da cui abitai per molti anni, mi leggeva delle pagine nei caldissimi pomeriggi estivi. Una simile cultura popolar-avventurosa, in cui dominava una visione del mondo fatta di gentilezza e protezione del debole, doveva necessariamente dare una vivezza insolita a questi paesi. Tanto che gli stessi animali trainanti, come per esempio il nostro asino, erano chiamati con altisonanti nomi' Baiardo, che era il cavallo di Rinaldo, o Rondello, nome dato al nostro asinelio in onore del cavallo di Buovo d'Antona. E in maggio (e in settembre) tutti e sette, genitori, e noi figli, che andavamo dai dieci ai tre anni, si partiva per la villeggiatura quando l'alba si disfaceva nell'aurora. Il paese era già pieno di capre che con i caprai andavano in campagna alla pastura; le campane suonavano il Mattutino, ed era un ventilar di suoni che davano movenze curiose all'aria che su se stessa ballando ci sfiorava. Tanto che Maria e Ida, le sorelle più piccole, dicevano: «0 marna, chi ci tocca e ci gira attorno?». Mia madre, nel suo abito scuro, con trine lievissime in basso, nelle bordure, scherzando rispondeva: «Oh, non sapete bambine mie che prima dello spuntar del sole ogni cosa è piena di invisibili angeli, e angiolelli, che vagano felici e toccano per farli crescere meglio, i bambini?». Mia sorella Enza col suo nasetto all'insù attorno: «Non sentite come profumano le vesti degli angeli?». Il profumo del timo In verità, lasciatoci dietro - tloc tloc tloc facevano gli zoccoli di Rondello - i Quattro canali e poi, alla sinistra, gli svalanghi delle terre di Ballare pieni di secolari pini, o più in su l'Albano Bianco affocato già nel sole, alla Nunziata profumavano, lungo i bordi dello stradone, origano e origanelle, e ciuffi di timo che fra di loro si abbracciavano. Poco prima, don Mario Raia, addetto a diserbare e a spetrare le cunette e gli intricati inghippi erbosi, aveva detto a mio padre di cui era amico: «0 Nane, beato te che vai a villeggiare a Carnuti!». Dopo avere imboccato lo stradone che portava verso Vizzini, bisognava prendere una trazzera interna da cui si vedevano centinaia di ulivi che andavano in giù verso il Trezzito, e Mineo che luc¬ cicava alta quasi navigasse nel cielo. Era una trazzera difficile da percorrere. Per di più dopo il vecchio caseggiato della cava di pietre, diventava sbilenca, piena di dossi e di buche e grossi sassi. Lì si doveva dimostrare la valentia di Rondello. Per non sovraccaricarlo, io, mio fratello ed Enza scendevamo dal calessino per correre sotto gli ulivi. Serpi addormentate Quella stradetta interna era (e tuttora è) misteriosa, piena di silenzio, di grandi distese di erba artemisia di un odor forte amaro. Si poteva perfino incontrare qualche contadino addormentato abbracciato ad un ulivo. E mia madre: «Che fa quello scimunito? dorme anziché sradicare la gramigna dal seminato?». E mio padre: «Giosi, l'alito della primavera è così intenso ed odoroso da far addormentare anche le serpi e gli uccelli». Infatti, se si guardava attorno sui sassi o negli anfratti si vedevano molte lucertole dormire, mentre sugli ulivi e sulle poche querce si posavano, ruotando nel loro volo, molti sparvieri e falchi per restare immobili fra i rami. Dopo essere passati davanti la cappelluccia di Santa Agrippina, e prima davanti la casa di massaro Nicolào il Pallino, si arrivava sull'altopiano di Carnuti sassoso, con le terre piene di fave e di grano che s'aprivano lentamente al passare delle ventate. Di fronte quasi alla nostra proprietà c'era un pre-siculo cimitero a grotticelle su cui cresceva un'erbetta morbidissima e ciuffi d'un'erba che in alto finiva in minuscole palline dalla peluria delicatissima, detti da noi muciili. Eravamo già arrivati, ma bisognava prima passare davanti ad un gran masso oblungo, verso Nord pieno di muschi, in minutissima fioritura, cupamente rimbombante se ci battevano sopra il pugno. Ida la più piccola gridava. «Ecco la pietra della poesia!». La pietra dei poeti Fin verso il 1850 attorno a quel masso dai rimbombi lamentosi, si raccoglievano molti poeti siciliani. Quella pietra ci riportava, senza che noi lo sapessimo, alle antichissime religioni del sottosuolo, e secondo le recenti vedute fisiche era probabile che là, come in altri punti della terra, ci fosse una emersione di grandi fasci gravitazionali capaci di stimolare la reattività emotiva dei più sensibili. Arrivati, mia madre, aiutata dalle tre figliole bambine, Enza, Maria (morta per ictus, come mio padre, nel luglio 1996} e Ida, approntata la madia e buttatavi dentro la farina, ne faceva un bell'impasto a lungo serpente che, ad arte tagliato, si trasformava in forme di pane che presto, quando il forno era arrivato, con l'uso della legna, al giusto gradiente di temperatura, riempiva la casa di odore di pane. Alla nostra casa era attaccata quella di don Carmine Manduca quasi sempre abitata dal mezzadro massar'Angelo, la moglie, la signa Concetta, e dal nipotino Peppi Amarù nostro compagno di giochi. E di giochi ne inventavamo tanti. Fare dei carrettini usando delle pale di fichidindia che Peppi sapeva tagliare e unire con spini ed erbe attorcigliate a meraviglia. Anche per i pezzi rotondi di pale che servivano da ruote. O si faceva la festa di Santa Agrippina la patrona di Mineo festeggiata nelle due ultime settimane di agosto. Per mortaretti buttavamo in aria sassi o fronde. Ma il divertimento maggiore per noi tre maschi era quando salivamo su un altissimo cipresso ai margini della nostra terra. Non era facile districarsi fra quei rami tesi su a ventaglio, ma ci riuscivamo. Arrivati in cima, la facevamo ondeggiare in qua e in là, e intanto attorno a noi e poi in lontananza, vedevamo mezzo altopiano di Carnuti che pareva si inclinasse nei suoi stessi seminati o sembrava che gli ulivi si appiattissero al suolo pieno di ombre dalle forme più strane. Di sera di minuto in minuto le stelle si infittivano, scintillavano basso a perdifiato, pareva ne cadessero anche fra gli ulivi e la vigna di là dalla piccola vallata. Le mie sorelle, mio fratello e Peppi Amarù ed io stesso, correvamo di qua e di là per prenderle e chiuderle nei nostri pugni. E mio fratello e Peppi gridavano: «Vendo stelle. Chi ne vuole?». Lontano abbaiavano i cani, i grilli facevano un gran concerto di stridii sottilissimi, gli assioli ci chiamavano dai colli e dagli ulivi. Giuseppe Bonaviri

Luoghi citati: Francia, Mineo, New York, Sicilia, Vizzini