BRIAN ENO di Sandro Cappelletto

BRIAN ENO l RADAR DI BORDO. Le nuove frontiere dell'udito: parla il padre del genere «ambient» BRIAN ENO La musica è il mio Graal ULONDRA NA concezione illuminista dell'arte, in qualunque campo un creatore decida di applicarsi, ispira il fare musica di Brian Eno. Inglese, cinquant'anni, il padre dell'«ambient music» attraversa un momento di particolare fervore. Negli studi di Kilburn ha appena terminato la registrazione di alcune songs, dal prossimo 27 agosto la Staatsgalerie di Bonn ospiterà il suo nuovo show di immagini e suoni, che segue «Lightness» (Luminosità ma anche Leggerezza, Lievità), creato nell'inverno scorso a San Pietroburgo. Da anni gli italiani ascoltano ogni sera un suo jingle, mentre ruota la palla del mondo a misura di giornalista del Tg3, e sua era la musica che ha accompagnato il lancio mondiale di Windows '95. In queste fortunate sigle, tuttavia, Eno non ritiene che si esaurisca la funzione sociale possibile oggi al proprio mestiere. «L'idea dell'anibient music è nata a New York, dove ho vissuto tra la fine degli Anni Settanta e l'inizio degli Ottanta. Una mia amica abitava in un grande appartamento, un loft molto lussuoso, giù verso l'East Side. Un mondo in alto e incapsulato in se stesso, isolato dal resto della città. Sotto, la strada era uno schifo, potevi trovare l'immondizia più lurida sulla porta, ma nessuno sembrava farci caso. Lei, durante il weekend, lasciava la città, tornava lunedì, ripartiva il venerdì successivo. Io non sopportavo quel bunker e ho detestato quella città dove tutti vivono in un very short now with a very small ear (in un adesso cortissimo, con un piccolissimo orecchio). Io cerco un long now e un big ear». L'esperienza del fare musica non vive solo negli studi di registrazione, nelle sale da concerto, nel consumo privato? «Trasformare il mondo costruendo oggetti che apparterranno al nuovo mondo. Questo era il compito che Theodor Adorno assegnava anche alla musica. La mia musica, i miei suoni, apparterranno al futuro, quando l'uomo si sarà riappropriato del suo tempo, non sarà travolto dalla fretta. Il bisogno di vivere in luoghi, in città confortevoli non morirà mai e mentre componi devi pensare a come vorresti fosse diverso il mondo e in quale mondo vorresti vivere». Raggiungere la pace attraverso la musica? «Indicare ima diversa velocità possibile del tempo, tenerlo sospeso, non corrergli dietro. Non separare i diversi aspetti della vita. Un atteggiamento che appartiene alle culture non europee». Ha definito questo concetto «un movimento nella stasi». Può essere più preciso? «Un ritorno ciclico di due melodie di diversa durata. Un movimento calmo e profondo, ma vitale, che si evolve e trasforma come in un processo organico». In «Music for airports» (1978) e «Thursday afternoon» (1985) Eno ha contrapposto questa sua pacificata visione del mondo alla frenesia dinamica del luogo simbolo della velocità e ad uno dei periodi più frenetici della vita di una metropoli. E nel cuore del rumore ha introdotto il respiro del silenzio. «Chiami silenzio i suoni che non hai ancora ascoltato. La tradizione della musica occidentale e dei suoi strumenti ha sfruttato solo una piccola parte delle possibilità sonore del mondo. Esiste una quantità enorme di suoni microscopici che oggi puoi captare grazie ai microfoni, esistono i suoni nuovi dell'elettronica, la possibilità di moltiplicare all'infinito il piccolo suono di un bit e di trasformare in pianissimo il suono di un grande strumento. Le nuove tecniche di registrazione, montaggio, missaggio del suono hanno un ruolo importantissimo nella stessa concezione del fare musica. I bastoni, le pietre, l'acqua, i metalli, le conchiglie e le molecole d'aria che racchiudono, sono anche corpi sonori. Il mio silenzio è sonoro, e la mia musica non è invasiva, se ne sta all'angolo della musica. Per ascoltarla devi avere delle orecchie fresche». In una recente intervista per la Bbc lei ha espresso la sua insoddisfazione verso la new age e il pop: li ha definiti «musicalmente poveri». «Ne ho ascoltata tanta di quella musica quando ero ragazzo! Ora, la new age mi sembra semplicemente kitsch nella sua banalità; il pop, invece, risponde soltanto al bisogno di scoprire il proprio corpo, di muoversi con un ritmo tipico dell'adolescenza. Una musica ormonale adatta ai teenagers che scoprono l'amore. Adesso che ho cinquant'anni e, come vede, sono piuttosto stempiato, voglio musica per crescere ancora. Ho bisogno di una risposta emozionale più complessa». Stempiato, ma ancora disinvolto con le scarpe da ginnastica. Quali compositori ama, oltre i confini del pop? «John Cage è stato fondamentale per tutta la mia generazione. Non avevo un background musicale, ho cominciato come pittore e artista visivo; lui mi ha dato l'attitudine mentale indispensabile per comporre. Decisive sono state due sue frasi: "Imitare la natura nel suo modo di operare" e "Essere artista è un lavoro da filosofo". Mi ha fatto capire che il fare musica non è mai un gesto tecnico». E che cosa, allora? «Walking out of philosophy into music (Uscir fuori dalla filosofia verso la musica)». Dopo Cage? «Il problema è che ho un'antipatia profonda per il modo freddo, accademico, elitario, esclusivo con cui il pubblico inglese si rapporta alla musica classica. Una fortezza chiusa in se stessa, con un rituale rigido e ripetitivo che allontana chi non ne fa parte. Anche in Italia è così?». Non c'è dubbio che ogni concerto, anche un concerto rock, sia un rito, con i suoi adepti più o meno devoti. «In Inghilterra è un rito opprimente tipico del classismo della upperclass, deliberatamente privo di qualsiasi sensualità. L'ho sempre avvertito così, mi irrita molto, lo giudico orribile, e questo mi ha allontanato da quel genere di musica. Ma quando l'anno scorso, a Pietroburgo, ho riscoperto Shostakovic, suonato, sentito, vissuto dai russi con la loro passione, l'emozione è stata immensa, così diversa». Quale musica moderna risponde al suo bisogno di sensualità? «Il rock ha cercato di recuperare l'unità perduta tra la mente e il corpo. Elvis Presley è stato il primo a riutilizzare il corpo; cantava e ti diceva: "Prendi sul serio il tuo corpo, ce l'hai, soddisfalo". E' stata una rivoluzione». La musica: ritmo o contemplazione? «Nella musica africana il ritmo è visto come parte di una condizione insieme mistica e sessuale, di un'esperienza totale. Solo la musica occidentale ha introdotto una distinzione tra la parte intel¬ lettuale e quella fisica del nostro corpo. Pensiamo all'esibizione di ima grande orchestra: il pubblico entra, si siede, sta zitto e presta molta attenzione con il suo orecchio. Il resto del corpo non è coinvolto in questa esperienza; la musica africana non separa corpo, emozione, intelletto. Il jazz e poi il rock hanno tentato di recuperare questa relazione». E' nota la sua ammirazione per un musicista come Fela Kuti. «La sua band è stata la migliore degli ultimi quarant'anni. Se James Brown ha portato l'Africa verso l'America, Fela ha riportato l'America verso le sue origini africane. Ha nutrito l'antico spirito africano, i ritmi arcaici della sua Nigeria, integrandolo con le sonorità elettriche americane, il jazz, lo stesso James Brown. Il suo uso deUe percussioni e del basso, che sapeva unire il ritmo alla melodia, è stata un'esperienza di enorme rilievo. E la complessità ritmica delle sue battute era straordinaria, complessa eppure immediata». Esistono ancora delle differenze tra musica bianca e musica nera, o lo scambio immediato di esperienze e comunicazioni le ha annullate? «La musica di origine africana ha avuto molte idee brillanti: l'uso scioccante delle parole nel rap è la più recente. Ma anche questa invenzione è stata assorbita dalla musica bianca e occidentale. La sola vera differenza rimane nel senso attribuito alla musica: per noi la musica è anzitutto entertainment, nelle comunità nere la musica rimane il centro della conversazione e delle relazioni. La gente si rapporta al proprio mondo musicale in modo non separato dalla vita della comunità. La musica appartiene al mondo in cui vivi, e questa necessità è stata compresa dai primi musicisti rock e pop occidentali, che viaggiavano ed ascoltavano... Sarà meglio chiudere la porta, mio figlio sta guardando la televisione e il volume è troppo alto». In un suo disco del 1993, «Neroli», lei ha usato come ossatura della composizione uno dei modi della musica greca antica, il frigio. Una negazione evidente della tonalità, dell'idea di un percorso, di una traiettoria da costruire che tanta parte ha avuto nella musica moderna dell'Occidente, durante il periodo che oggi chiamiamo «classico». «Le posso rispondere con un gioco dì parole che in inglese viene bene: Mode is mood. (Il modo è l'atmosfera, l'umore). 11 modo frigio mi è sembrato perfetto: io non volevo raccontare una storia, anzi evadere dalla tradizione della melodia narrativa. Neroli è l'idea di un luogo, di un giardino incantato: i fiori, le fontane, l'acqua, i colori. «Non accade nient'altro che il succedersi di questa serie di immagini. "Neroli" è un profumo, un'essenza afrodisiaca, anche una cura contro l'insonnia». Certamente riuscita. 57 minuti e 58 secondi di afrodisismo, con impercettibili variazioni del ritmo e dell'intensità del suono. E finisce come era iniziato. «Perché si agita tanto? Ascolti un raga indiano, l'intreccio labirintico delle melodie della loro tradi¬ zione: cominciano, si dispiegano verso lo spazio, non ritornano. Esattamente il contrario dell'idea tradizionale della melodia, che si fa un viaggetto e poi ritorna. Questo modo antico è molto moderno, lo può capire sentendo la durata di un suono elettronico. Un istante può durare un tempo infinito. Lo spirito va verso lo spazio e non toma più a casa, è l'idea di un'unità tra il musicista e il mondo, di una musica che esiste come condizione del singolo in rapporto con la spiritualità. Non una storia, ma un luogo». Questo atteggiamento contemplativo non ha impedito a Brian Eno un'intensa attività come produttore discografico (U2, Devo, Talking Heads si sono tutti giovati delle sue competenze e intuizioni), compositore di colonne sonore pei- Derek Jarman, coautore di numerosi dischi di David Bowie, autore di saggi, raccolti in volume nel 1996 e pubblicato in Italia da Giunti. Ha cantato con Pavarotti a Modena, è attivo nel progetto eh beneficenza «War Child» a favore dei bambini vittime delle guerre. Si dichiara fedele alle amicizie (in Italia è affezionato al gnippo fiorentino di «Materiali sonori»), soltanto dell'esperienza dei Roxy Music non ha piacere di parlare. «E' ormai lontana un quarto eh secolo, ed è finita presto. E' servita a impratichirmi con le tecnologie, ma ha rischiato di identificarmi come un ricercatore. Ripeto: la musica non si risolve nella tecnica». Quale musica oggi risponde al suo bisogno di vita? «La "eye music" (musica dell'occhio), un progetto di ascolto e immagini. La mostra di Bonn ha questo titolo: Future Ughi lunch proposai. La musica deve essere il cibo leggero del nostro futuro». Un'idea di arte totale? «Luce, oggetti, immagini ed effetti elettronici, diapositive, suoni essenziali, frasi musicali più lunghe. Una nuova esperienza di ascolto, per l'occhio e l'orecchio, che deve riscoprire le sue possibilità di ascolto». Per descrivere l'atmosfera evocata dalla sua musica, ha usato spesso l'immagine di un luogo perfetto. Al di fuori della sua mente, ha mai trovato questo personale Santo Graal? «E' quello che cerco di fare sempre. Ritengo compito della musica costruire questa possibilità, offrendo alle persone delle situazioni ambientali e di ascolto in cui possano avere delle sensazioni simili a quelle che esploro». Sandro Cappelletto Nell'immagine grande Brian Eno; sotto Elvis Presley, in basso John Cage