Il Grande Gioco dei taleban di Mimmo Candito

Il Grande Gioco dei taleban Il Grande Gioco dei taleban Tutte le trame passano attraverso Kabul I BURATTINAI DEL TERRORE E RO in Afghanistan un paio di settimane fa. Ho tentato di trovare un filo che mi conducesse a Osama bin Laden, e seguivo da lontano la pista che avevo annusato nell'intrigante suk di Peshawar, tra spezie d'Oriente e partite di Kalashnikov fornite direttamente a suon di dollari; un informatore mi aveva soffiato che bin Laden avrebbe dato una (rarissima) intervista a un reporter pakistano, e nella vecchia città di frontiera avevo potuto scoprire le tracce dei servizi di sicurezza del capo terrorista. Sembrava un buon filo, un vero colpo di fortuna. Però, entrato poi in Afghanistan, il filo si spezzò subito: ogni tentativo d'incontrare nuovi agganci locali, tra Jalalabad e Kandahar, veniva tagliato bruscamente dai ruvidi sospetti dei miliziani taleban; era come sbattere contro una invisibile, ma ugualmente impenetrabile, rete protettiva stesa sul territorio delle province che stanno a Sud e a Sud-Ovest di Kabul. Mai, forse, avevo trovato altrettanta invalicabile rigidità nelle inchieste fatte in passato lungo le terre clandestine del Medio Oriente, tra Beirut, Damasco, Baghdad, e Gerusalemme. Se ne capisce bene la ragione. Oggi l'Afghanistan è il crocevia naturale del nuovo terrorismo internazionale, quello che - messi da parte Carlos e l'ala militare dell'Olp - si muove con una spregiudicatezza le cui radici sono piantate interamente nella predicazione del fondamentalismo. Osama bin Laden può anche esserne l'interprete simbolico, con la potenza dei suoi petrodollari, la facilità delle alleanze religiose, l'intransigenza della missione fideistica; però quello che conta è il terreno sul quale si sta consolidando il suo progetto, che è un terreno marcato dalla tradizione storica e dalla geografia politica. La tradizione storica è quella dell'Afghanistan come campo di battaglia tra i piani espansionistici dell'impero russo (poi sovietico) e le strategie di contenimento dell'impero britannico (pei america¬ no). Il «Great Game» del piccolo Kim è diventato ora la guerra per il controllo delle fonti energetiche del Golfo e del Caucaso; e là dove passano gli itinerari che portano al cuore delle economie dei Paesi ricchi, sempre l'incrocio tra diplomazia e terrorismo si fa un intrico di perversa identificazione. Quanto alla geografia politica, basta guardare la mappa della regione per leggervi tutti i nomi che fanno dell'Afghanistan una polveriera: l'Arabia Saudita e l'Iran, la Cina e l'India, la Russia e la Turchia, il Pakistan e le repubbliche dell'Asia ex-sovietica. Gli interessi nazionali in competizione (India, Pakistan, Turchia, Russia) si fondono con i settarismi religiosi (Arabia Saudita, Iran, India, Pakistan) e con le ambizioni di egemonia regionale (Cina, Russia, India, Iran, Turchia): quello che ne viene fuori, è la creazione endogamica di un terreno di coltura ideale per ogni manovra di destabilizzazione. L'Afghanistan è diventato «santuario» privilegiato di queste manovre perché offre oggi una logistica che nemmeno il Medio Oriente dei tempi di Settembre Nero sapeva presentare altrettanto dotata di risorse: è un territorio di aspra ruvidezza orografica, con montagne, gole e forre impenetrabili a ogni esercito (ne conosce amaramente la storia l'Armata Rossa), ha la cultura della separatezza che le hanno insegnato secoli (ancora in corso) di divisioni feudali tribali ed etniche, e ha la preparazione militare di guerriglieri formati prima con l'assistenza della Cia e sperimentati poi sui campi di battaglia della più evoluta tecnologia bellica (e inutilmente la Cia ha tentato di riacchiapparsi 1 gli Stinger che aveva passato ai mujaheddin). Tra Le Carré e Forsytlie, le piste che s'arrampicano lungo i picchi innevati dell'Afghanistan non deludono alcuna fantasia. I taleban sono l'elemento di catalizzazione di tutte queste forze, perché ne inglobano la natura politica e le ideologie senza però venirne squassati, ancora, dalle contraddizioni: sono soldati ma anche mujaheddin, sono monaci fanatici ma anche governo statale, predicano la crociata della purezza isla- mica ma non ignorano le ragioni della geopolitica, hanno infine ambizioni nazionaliste e però si reggono sui quattrini e sulle forniture militari di alleati che pretendono di strumentalizzarli. La durezza dell'attacco americano apre una prima linea di frattura in quelle contraddizioni, e impone al movimento taleban l'obbligo di una valutazione politica, al di là delle prime prevedibili reazioni d'istinto. Questa valutazione politica muoverà comunque da due realtà di fatto: la prima è che il movimento non s'identifica con bin Laden, il quale resta un ricco compagno di strada e niente più; la seconda mostra una tensione costante tra un'ala più radicale e un'ala più politica, fazioni di mappatura difficoltosa (e anche varatile), ma comunque presenti sul campo con strategie non sempre concordanti. Bin Laden, come fu già per Carlos in Medio Oriente, si muove nelle terre che stanno ai piedi dell'Hindo Kush con una libertà tanto riservata quanto sorprendente; l'Afghanistan dà al suo progetto la consistenza rassicurante di un ecosistema omogeneo, protettivo, ipersensibile. Ma il «Great Game» - anche nel nuovo terrorismo - è una macchina assai più complicata dei fanatismi di un principe saudita senza cittadinanza. A Jalabad, dove bin Laden ha il suo rifugio preferito, si recita a memoria il Corano. Altrove si fa anche politica. Mimmo Candito Una frattura si è prodotta tra gli ultra e l'ala più politica del movimento E' un santuario ideale per la natura aspra e la divisione in tribù rivali

Persone citate: Bin Laden, Laden, Osama Bin Laden