Zagladin: eravamo tutti falchi

Zagladin: eravamo tutti falchi L'intervista. L'ex dirigente del pois ricorda i giorni concitati della «soluzione militare» Zagladin: eravamo tutti falchi «Ma purea Mosca non mancavano i timori» MOSCA DAL NOSTRO CORRISPONDENTE «Vuol sapere come vissi il 21 agosto del 1968? Me lo ricordo come fosse ieri. Allora ero vice del Dipartimento Esteri del pcus. Noi curavamo i rapporti con l'Occidente e non con i Paesi socialisti. Per questo c'era un altro Dipartimento. Di fatto però fummo coinvolti molto presto nel problema cecoslovacco. Io venni convocato alla prima riunione il 22 marzo, e da allora partecipai a tutti gli incontri successivi fino al fatidico 21 agosto». Vadim Zagladin, in uno spazioso appartamento da Nomenklatura sovietica affacciato sull'Arbat, racconta i giorni caldi dell'invasione. Cosa accadde a Mosca? «La notte del 20 rimanemmo al Comitato centrale. Ci avevano detto di restare ai nostri posti e di attendere un comunicato. Accendemmo una radio, anzi due, ma il comunicato che aspettavamo non arrivò mai. Ne arrivò un altro, del tutto diverso. Subito dopo ricevetti l'ordine di andare da Luigi Longo, in vacanza vicino a Mosca. Lo incontrai alle sei del mattino, poi andai da Dolores Ibarruri, dal rappresentante del pc belga e da quello dell'ufficio politico del pc francese». Come reagì Longo? «Era già sveglio perché si preparava ad una raccolta di funghi nel bosco. Disse subito che intendeva volare a Roma il più presto possibile e cercò di telefonare in Italia. Temeva, e me lo disse, che il pei avrebbe reagito con eccessiva durezza, in preda all'emozione. Quando, alla fine, riuscì a mettersi in contatto con Roma la reazione c'era già stata». Come si svolse, la discussione nell'apparato del pcus? «A marzo le divergenze con i cecoslovacchi erano ancora, almeno ufficialmente, solo ideologiche». E quando si delineò la soluzione di forza? «Venni a sapere dopo che l'ordine di prepararsi a un eventuale intervento militare era stato impar- tito nella prima metà di aprile. Ero nella delegazione sovietica che atterrò a Mukaciovo. Dalla macchina che ci portava in città si vedevano già ì movimenti di truppe. Successivamente, al ritorno dall'incontro di Bratislava - era il 4 agosto -, il nostro aereo (che era lo stesso di Brezhnev, il quale però aveva preferito il treno) fu costretto a volare via Odessa perché tutto lo spazio aereo era ormai chiuso». Nella direzione del pcus c'erano posizioni, o sfumature diverse? «C'erano. Fino a giugno comunque non vi furono riunioni importanti. A luglio la situazione si fece pesante, ma non udii mai ventilare la soluzione militare. Penso che nemmeno tutto il Politburo ne fosse al corrente... Un attimo che prendo gli appunti... Allora tenevo un diario, in cui per motivi di prudenza segnavo solo le date e mai i contenuti, affidandomi per questi alla memoria... Ecco, il 22 luglio si discusse la bozza dell'appello della direzione del pc cecoslovacco e il progetto del discorso di Brezhnev. In quell'occasione apparvero le sfumature. Certo tutti dicevano che bisognava "aiutare" i compagni cecoslovacchi a "salvare il socialismo". Ma aleggiava la preoccupazione per le conseguenze che la vittoria della linea di Dubcek avrebbe potuto produrre in Unione Sovietica. Podgornij - certo al corrente dei piani militari - chiese se 1' "aiuto" non fosse in contrasto col diritto internazionale. Ci furono anche altre considerazioni analoghe, ma poche». E Brezhnev come si comportava? «Era molto cauto e la cosa mi incuriosì parecchio. Era impossibile capire se fosse favorevole o contrario all'intervento. Fu una riunione molto ristretta: solo i membri del Politburo e della segreteria del Comitato centrale, anzi neanche tutti perché alcuni erano in ferie. Più due estranei, uno dei quali io, incaricati di prendere appunti. Alla fine Brezhnev si rivolse a noi: "Avete scritto tutto? Bene, scordatevelo"». Chi spinse verso la decisione finale? Chi erano i falchi? «In un certo senso tutti erano falchi. Ma molti avevano dei dubbi. Subito non me ne resi conto, ma tutti temevano per il futuro del socialismo e dell'Urss. Era l'epoca della riforma Kosyghin: parziale quanto si vuole, ma gli effetti c'erano stati. Ed essi erano stati più politici che economici. Questo angosciava molti. L'autonomia delle imprese apriva il discorso sulla democrazia. Non a caso nel 196667 c'erano state le prime campagne contro i dissidenti, il processo contro Daniel e Siniavskij. Andropov fu molto impegnato in questo senso. E si aggiunga che nemmeno noi avevamo tutta l'informazione. Neanche io, che pure svolgevo funzioni piuttosto rilevanti, avevo accesso a dati essenziali. C'era il bollettino ufficiale, poi quello (detto bianco) per l'apparato, poi i rapporti per i capi-dipartimento». Dunque nessuno credeva sul serio che Dubcek fosse una marionetta dell'Occidente? «Personalmente non era un uomo molto forte, ma nel suo gruppo c'erano forti e energiche personalità. Nelle nostre discussioni, anche con Ponomariov, la tesi dell' "agente occidentale" non venne mai fuori». Si sarebbe potuto evitare l'intervento se Dubcek e compagni fossero stati, diciamo così, più gradualisti? «Avevano messo in moto un processo tumultuoso. Forse la vicenda avrebbe potuto consumarsi non in pochi mesi, ma in uno o due anni. Comunque alla fine il sistema si sarebbe difeso, poiché la primavera di Praga era una minaccia reale nei suoi confronti». Avevate calcolato le reazioni? «Per quanto riguardava i pc fummo molto realisti. Nel mio documento per il Politburo azzeccai in pieno la previsione». Anche la reazione del pei fu prevista? «Del tutto. A fine luglio una delegazione del pcus, guidata da Kirilenko, arrivò a Roma. Dicemmo che eravamo per la democrazia, ma che a Praga c'erano elementi antisovietici e antisocialisti. Ma gli italiani non furono convinti». Qualcuno ha scritto che se Mosca avesse capito il tentativo di Dubcek la perestrojka sarebbe cominciata con vent'anni di ritardo in meno. «Sì, solo che allora non potevamo seguirli». Giuliette Chiesa Anna Zafesova Qui accanto una scena di rivolta a Praga nei giorni dell'invasione sovietica; sotto Luigi Longo, all'epoca segretario del Pei; a destra l'ex dirigente del Pcus Vadim Zagladin «Breznev era molto cauto, non si riusciva a capire se fosse favorevole o contrario»