Jan Palach, il vero simbolo della resistenza

Jan Palach, il vero simbolo della resistenza Jan Palach, il vero simbolo della resistenza Incarnò la lotta senza speranza del David ceco contro il Golia russo EUR avendo attraversato i tristi eventi praghesi dalla primavera del 1968 all'inverno inoltrato del 1969, cioè prima, durante e dopo l'occupazione sovietica, il ricordo rimasto impresso con più intensità nella mia memoria è quello dei funerali di Jan Palach. Tutto s'era già compiuto: il manifesto delle 2000 parole era stato già compilato e dimenticato, i 6300 carri del Patto di Varsavia erano già arrivati e spariti in località segrete, Dubcek e il presidente Svoboda avevano già sottoscritto la resa incondizionata. La cosiddetta «normalizzazione», avviata con l'inganno e la violenza da Breznev e compagni, era insomma già fatto compiuto. L'ordine totalitario, reimposto alla Cecoslovacchia nella notte del 20 agosto, appariva ormai da mesi simile alla quiete che regna nei cimiteri. A squarciarla d'un tratto, illuminandola sinistramente, fu la vampata che il 16 gennaio '69, nel centro della piazza San Vencenslao di Praga, trasformò in torcia umana il corpo dello studente Jan Palach. Un disperato atto di protesta sacrificale contro l'onta dell'occupazione russa, fors'anche contro le debolezze e i cedimenti dello stesso gruppo dirigente dubcekiano. Un gesto comunque di dolore autodistruttivo, molto in sintonia con una certa passività, oscura, morbosa, un po' masochistica, del carattere nazionale boemo, dove agli umori beffardi del soldato Svejk si unisce spesso l'umor nero e perdente dei personaggi di Kundera e di Forman. Palach morirà il 19 gennaio; sei giorni dopo, le sue esequie, alle quali parteciperà circa un milione di persone, assumeranno il tratto solenne del funerale di una nazione intera. Ricordo che in quel pomeriggio di lutto denso, assoluto, non vidi più nessun carro armato, nessun militare sovietico per le strade di una Praga muta e nereggiante di folla. I monumenti dell'antica città sembravano scomparsi, sommersi e come inghiottiti da una marea di corpi neri, di membra irrigidite, di teste immobili che ricoprivano ogni cosa all'intorno: la pietra delle piazze, le balaustre dei ponti sulla Vltava, le finestre e perfino i tetti degli edifici. Una città di morti stratificati dai marciapiedi ai davanzali, dai davanzali ai coppi, taluni quasi aggrappati alle nuvole ferme nel cielo plumbeo, tutti assiepati e incombenti sul corteo funebre che non si riusciva a scorgere e che trasportava il feretro invisibile del giovane suicida. Non ho mai più rivisto una simile folla pietrificata, mai più percepito, nel cuore freddato di una grande città europea, un silenzio così totale e così penetrante: silenzio che faceva l'impressione di un bavaglio compresso su un sordo urlo collettivo. Tutto d'un tratto quel silenzio fitto, che si poteva quasi toccare con mano come un immenso sudario vetroso, si ruppe e sembrò andare m mille frantumi: uno stormo di colombi lo aveva perforato da un capo all'altro, sostituendo con la Io- to ombra ondeggiante nel crepuscolo, col loro scrosciante fniscio d'ali, le note di un requiem che nessuna orchestra umana avrebbe potuto emettere in maniera altrettanto sonora e lacerante. Era come se il bavaglio fosse d'improvviso caduto dalla bocca otturata di Praga e l'urlo finale del requiem, fino allora rattenuto, fosse stato affidato al volo alto e fragoroso dei colombi. Altro che Svejk, simbolo di resistenza passiva e satirica puntata contro gli ultimi cascami del tollerante impero absburgico. Nel 1969 era Palach il simbolo di morte, di passività estrema, ormai priva di sorriso e di furbizia, che i piccoli slavi illusi e delusi di Praga opponevano all'impero totalitario dei grandi slavi di Mosca. Lo svejklsmo cèco, la burla antimilitarista, la comicità dissacrante di una cretinaggine astuta contrapposta alla cretineria solenne dei generali viennesi, poteva avere senso nel contesto di una ironica civiltà multinazionale, austroslava, nella quale sudditi e burocrati, servi e padroni condividevano e assaporavano in fondo gli stessi valori di critica e di satira. Ma la disinvolta tradizione svejkiana, ormai anacronistica, non poteva avere più alcun senso nel conflitto impari tra il David che opponeva 2000 parole a un Golia in procinto di sopprimerle con più carri armati di quanti Hitler ne aveva impiegati contro Stalin. Solo il tragico Palach, l'eroe del suicidio nazionale, poteva riassumere nel proprio sacrificio emblematico, iì significato di uno scontro feroce, senza scampo, senza perdono, senza ironia, tra la minuscola Boemia e la sterminata Russia: tra l'utopia di un socialismo umano e disarmato e la realtà di un socialismo armato e disumano. Non è stato certo il mediocre e ideologicamente ricattabile piccolo comunista Dubcek il vero shnbolo della resistenza dei cécili e degli slovacchi contro l'imperialismo granderusso: egli, da bravo leninista educato a Mosca, piegò la schiena accettando e firmando tutto ciò che Breznev e Kossighin gli imposero di firmare e di accettare nei primi giorni dopo l'aggressione e dopo l'arresto. Né simbolo di ribellione e di libertà, nonostante il cognome che in cèco significa proprio libertà, era stato Svoboda, il capo dello Stato che noi giorni dell'urto si comportò più da Pétain che da De Gaulle. Per tacere dei vari felloni e collaborazionisti come Bilak, Husak, Inora e compagni. L'unico autentico vessillo di opposizione e di libertà, a prescindere dalle ubbie sul «socialismo dal volto umano», è stato l'anonimo giovane Palach: colui che decise di gettare il proprio cadavere in faccia al gigante mvasore. Fu lui, incendiandosi nel centro storico di Praga oltraggiata, che incarnò con la propria morte il David cecoslovacco contro il Golia russo. Il resto di quella brutta vicenda fu moralmente meno dignitoso e, direi perfino, storicamente meno significante. Enzo Bettiza Un milione di persone per dare l'addio al giovane suicida Quel corteo assunse il tratto solenne del funerale di una nazione intera Jan Palach, lo studente che si diede fuoco per protesta in piazza San Venceslao il 16 gennaio '69. In alto i carri armati per le strade di Praga

Luoghi citati: Cecoslovacchia, Mosca, Praga, Russia