PRAGA l'altra faccia del '68 di Barbara Spinelli

PRAGA l'altra faccia del '68 Mentre l'Occidente era scosso dalla contestazione, il 21 agosto i carri armati sovietici stroncavano le illusioni della Primavera PRAGA l'altra faccia del '68 "TICCADE di rado che il I Sessantotto in Europa II sia evocato nella sua inrl terezza complicata, sot■ *l tinnente disturbante: che ci si ricordi del simultaneo tumulto di Praga, oltre che dei tumulti di Parigi Berlino o Roma. Che le memorie non si facciano emiplegiche, e che alla Cecoslovacchia non venga riservato un piccolo spazio recintato, ben disgiunto dall'eroico racconto narcisista del Sessantotto occidentale: un subordinato spazio estivo, appena sufficiente per riassettare le coscienze e per narrare l'unica cosa che davvero interessi i memorialisti: la fine triste di quella Primavera. Mette a disagio questo strano appaiarsi dei due romanzi, che nacquero in contemporanea a Ovest e a Est e che però si biforcarono drasticamente: nei vocaboli e nelle aspirazioni, nei prezzi pagati, nei debutti e negli epiloghi. Il riferimento al romanzo non è casuale, perché il Sessantotto di Praga fa pensare a una figura classica del romanticismo. Fa pensare alla figura dell'ombra, del doppio, o come dicono i tedeschi: del Doppelgànger, che in permanenza accompagna il protagonista nel suo cammino. Il Doppelgànger è inquietante, diafano, a volte sembra appunto relegabile in un esiguo spazio separato. In apparenza non è indispensabile: è prescindibile, come l'ombra di Peter Schlemihl nel racconto di Chamisso. In realtà ha l'immane potere di dare consistenza all'eroe: perché lo disvela, lo disinganna, lo obbliga a guardare dentro se stesso. Il Doppio è come un memento, un nodo che si fa al fazzoletto per non scordare gli appuntamenti. E' un pense-bète, dicono i francesi con felice espressione. Così il Sessantotto a Praga: Doppelgànger dei nostri Sessantotto, grande disingannatore, disvelatore delle illusioni. Ombra cucita alle nostre scarpe, ineluttabile. Difficile capire le ribellioni di Berlino o Roma o Parigi, se li si sconnette dal Doppio ironico e tragico che Praga incarnò. Sterile esercizio commemorare il 21 agosto e i carri sovietici, se i due trentennali non vengono ricongiunti e se Praga non diventa quello che fu sin da principio: nostro prezioso memento, nostro pense-bète. Il Doppio procura fastidi perché l'eccitazione fu simile simili furono i modi di vestire, i gusti irriverenti, trasgressori ma per il resto tutto separava i movimenti. I tumulti occidentali s'inalberavano contro la società dei consumi e la cultura occidentale, si entusiasmavano per Cuba, mentre Praga non so gnava altro che il ritorno all'Oc cidente e alle sue tradizioni let terarie, che il rientro in Europa delle «piccole nazioni sequestrate a Est», come disse nell'83 Milan Kundera. In Occidente si accesero giovanili illusioni liriche su incontaminate rivoluzio ni marxiste, e in Cecoslovacchia la scintilla iniziale partì da adulti scettici, disingannati, po strivoluzionari, allergici all'estremismo degli occidentali come al lirismo della purezza. Lo stesso spazio consacrato alla politica differiva: a Ovest que st'ultima era preminente, non esisteva comportamento priva to, intimo, che non fosse imperiosamente chiamato politico. A Est il sogno era di abolire la ridondanza di politica instaurata dal comunismo: di spoliticizzare l'arte nonché le esistenze pri vate, le conversazioni intellet tuali e l'insegnamento della sto ria, della filosofia, dell'economia, delia scienza. Il Sessantotto cecoslovacco comincia nel Nord della Boemia, con un convegno del '63 sullo scrittore più esecrato dai comunisti: Franz Kafka. Prosegue con i romanzi di Kundera o Vaculik, con il teatro dell'assurdo di Havel, con il cinema grottesco di Forman. L'esordio è letterario-culturale più che politico, a differenza delle rivolte in Polonia, Ungheria. I politici si approprieranno tardi del tumulto, e questa è peraltro una delle debolezze praghesi, come mi spiega Karel Thein, studioso del tempo in Platone: «La Cecoslovacchia non ha nelle sue tradizioni ottocentesche un romanticismo politico-aristocratico come i po¬ lacchi, ma un romanticismo essenzialmente culturale». Queste differenze sono utili da rimeditare: perché illuminano crudamente i rapporti tra i due Sessantotto, perché aiutano a ripensare i lirismi dell'Ovest, e l'estasi giovanilista che così spesso rievocava - negli orientali - i vocabolari comunisti del colpo di Stato del '48. Il culmine del malinteso fu raggiunto durante una visita a Praga di Rudi Dutschke, capo del movimento studentesco berlinese, prima del 21 agosto: l'incontro fu un fallimento. Dutschke parlò di classe operaia, di ruolo dirigente del partito, di Marx, e i praghesi nauseati ammutolirono. Se si esclude il personaggio eterodosso di Cohn-Bendit, mancava nel Sessantotto occidentale l'allegria, la derisione affilata, il senso dell'assurdo che Havel aveva in comune con l'amico Samuel Beckett. Il più delle volte tali discordie furono occultate: non solo dalle sinistre occidentali ma a Praga stessa. Tanto che Praga stessa non sa oggi come commemora¬ re il trentennale: le nuove generazioni neppure vogliono sentirne parlare, dicono i sondaggi. Ci sono momenti in cui ne ha addirittura clandestina vergogna, perché i cecoslovacchi non furono guerrieri come gli ungheresi, e Dubcek si piegò più facilmente di Imre Nagy, giustiziato dagli invasori. Quanto alla solidarietà occidentale, essa fu preziosa, ma sotterraneamente ambigua: sinistre e comunisti avevano taciuto o vituperato l'insurrezione ungherese, e solidarizzavano ora con Praga perché quest'ultima sembrava auspicare non già una rottura col comunismo bensì una sua revisione, correzione. La Primavera aspirava ufficialmente a una perestrojka stile Gorbaciov, a un socialismo dal volto umano, a una Terza Via tra comunismo e capitalismo, e questo tranquillizzò le sinistre occidentali, facilitò la condanna dell'Urss, ed ebbe come effetto l'esaltazione nelle memorie dell'anima revisionista dei tumulti praghesi. Ma non era l'unica anima, quella revisionista. Le anime della Primavera erano sempre state due, e accanto ai revisionisti del Pc c'erano sempre stati gli innovatori, i promotori della rottura, della «Rinascita». La voce di questi ultimi fu decisiva, ma ben più influenti all'estero erano gli eredi del comunismo, i dubeekiani. Have) era uno dei rari non comunisti nel movimento, e i cèchi ricordano le polemiche che questi ebbe con Kundera: Kundera ancora impregnato di comunismo, che accusava Havel di pericolose tendenze filoborghesi. Karel Kosik vagheggiava una conciliazione tra Marx e l'antioccidentalismo antimoderno di Heidegger, mentre Jan Patocka - filosofo eccelso, ma meno conosciuto in Occidente - costruiva su Heidegger una sua filosofia della libertà europea che gli costò poi la vita, dopo torturanti interrogatori nel '77. Nell'89 vinsero Havel e Patocka, non Dubcek e i sostenitori del revisionismo che tanto aveva stregato l'Occidente. E la mancanza di un sostegno esplicito a questa prima corrente non fu senza conseguenze negative: nella Repubblica cèca, oggi, perfino Havel è considerato un idealista che si pone troppe questioni - sulla modernità, la libertà, le responsabilità speciali dell'Europa - e l'intero Sessantotto è guardato con sospetto, se non rimosso. Per questo è importante intrecciare i due Sessantotto: l'occidentale e l'orientale. Perché ci si rammenti che l'idea d'Europa fu salvata in quegli anni non dai popoli che sono oggi nell'Unione, ma dai popoli che oltre cortina fuggivano le rivoluzioni comuniste, e invocavano le nostre libertà. Barbara Spinelli Jf^X