Nel regno delle aquile di Lorenzo Mondo

Nel regno delle aquile Alla scoperta delle sette coppie che vivono nell'alta Valle di Susa Nel regno delle aquile Sui sentieri di Oulx a caccia di nidi OULX ON è una guardia forestale abituata a binocolare la montagna contro le malintenzioni degli uomini e degli elementi. Non è uno dei superstiti pastori che, tenendo dietro alle pecore, conoscono della montagna ogni salto e anfratto. Meno che mai un bracconiere che ama puntare sulla montagna il fucile di precisione. G. è un medico e non sa neanche lui come gli sia nata questa passionaccia per le aquile. Credo che le sogni perfino di notte, appollaiate sulla testiera del letto. Sessantanni ben portati, carattere schivo, si infervora soltanto se tocca l'argomento e allora parla e parla, mentre arranchi dietro di lui, senza curare che tu lo ascolti, come se si rivolgesse all'aria. Ma se non nei sogni, le aquile dove le vede, impagliate al museo o nel riparo del Gran Paradiso? Come è possibile in Valle di Susa, con l'autostrada piena di Tir che vomita migliaia di sciatori, villeggianti, boy-scouts, d'inverno e d'estate? Ci sono, ci sono, fa con la testa. Lui, solo nell'alta Valle, conosce e «frequenta» sette nidi, che significano sette coppie di aquile reali. In certi giorni, all'alba o al tramonto, dimentica stetoscopio e malanni, si inoltra da solo per mulattiere, sentieri, idee di sentieri e dirupi. Arrivato sul posto, piazza sul treppiede il binocolo a trenta ingrandimenti e guarda. Conosce vari esemplari adulti, gli accade di scoprire che la tal femmina si è trovato quest'anno un compagno più giovane, riconoscibile dal piumaggio chiaro sotto il ventre. Non è indizio di tradimento, ma di vedovanza, sono nuovi sponsali. Controlla i progressi nell'edificazione del nido e lo sviluppo del cucciolo. Sa dire se sta crescendo ardito dopo l'espulsione del fratello più gracile, è aggiornato sugli incrementi e le perdite. Bastano naturalisti improvvisati e chiassosi, fotografi maniacali, per rovinare mia covata. Basta un incendio che arriva a lambire la roccia materna. E' anche il loro costume - spiega, evitandomi la scudisciata di una fronda - la loro natura, che le mette a rischio. Con il ritorno degli ungulati - camosci, cervi, caprioli - che sforano dall'oasi del Gran Bosco, non mancano di nutrimento nella stagione inclemente. Profittano di capi immaturi o malati, di quelli travolti dalle slavine. Ma allevano un solo aquilotto all'anno, e appena un terzo di loro raggiungono la maturità. Per di più, occorrono quattro anni perché diventino sessualmente capaci e contribuiscano ad allungare la catena della specie. Siamo intesi da prima, il dottor G. mi porterà su a un patto: niente nomi, né il suo né quello del posto. Cammina agile, si volta indietro con disappunto perle mie suole inadatte, mi tende il bastone in qualche passo azzardoso. Si ferma a raccogliere un fiore giallo - l'amica buona per decotti - a indicarmi un uccellino, l'averla, mimetizzata sullo spino. Capisco che prima dell'aquila ci sono state altre cose, che la sua curiosità non conosce confini. Ha un bello spiegare che in qualità di ufficiale sanitario deve tenersi al corrente, districarsi tra le malizie di erbe e di funghi. Mi piace pensare che sia l'erede d'una tradizione evanescente di medici e curati che hanno corroborato con lo studio, con la competenza scientifica l'amore per la propria terra. La relativa inaccessibilità dell'aquila (chi può sfuggire allo strapotere dell'uomo?), il prodigio della sua sopravvivenza, lo appagano forse nell'idea di una montagna incorrotta. Rappresenta l'espressione più nobile di una fauna che, se appena le dai tregua, sa opporsi al degrado dell'ambiente e della sensibilità. Il nostro appuntamento è propiziato per strada da altre fuggevoli apparizioni. Prima è il giaciglio ancora tiepido di un capriolo, abbiamo disturbato la sua siesta. Poi è un rumore di frana pietrosa, facciamo in tempo a vedere un branco di cervi precipitarsi a valle, senza piegare la cervice rameggiarne. Aldilà di un burrone, un camoscio si inguatta con un fischio lento, modulato, così diverso da quello acuto, allarmato, della marmotta. Dopo ogni pausa il dottore riprende con lena, fino a conquistare una cengia di erba rada, sospesa sul vuoto. Siamo sui 1600 metri. Il nido è là, agganciato alla fessura di una parete ripida. Lo distingui bene a occhio nudo, guidato dalla chiazza bianca degli escrementi sulla roccia sottostante. Saranno un duecento metri. Forse non è ancora partito, la visibilità è eccellente, abbiamo il sole che cala alle nostre spalle nella lenta consunzione estiva. Con l'occhio incollato al binocolo si possono distinguere sul bordo superiore del nido gli sterpi verdi che servono a rac- conciarlo e rinfrescarlo. S'intravede anche una massa scura, indistinta, che . all'improvviso prende ad agitarsi. Non c'è dubbio, è un'ala che sfrasca. Sta spollaiandosi beatamente oppure è la casa che gli va stretta. Ancora qualche minuto di impazienza e la testa rapace emerge dal viluppo. Sembra guardare nella nostra direzione, il becco giallo proteso in atto di vivida alterezza. Poi, come se volesse mettersi in posa, gratificarci per la sgambata, si mostra di profilo, nitido contro il cielo. La mia guida mi prende per un braccio. Alta sulla valle di fronte un'aquila vola, la madre. Ma non è impegnata in un'ultima caccia prima del crepuscolo. Si muove a scatti, a impennate e ricadute, non col giro ampio, regolare che conosciamo. C'è un gheppio che la tormenta, per gioco o dispetto, forse hanno mancato in due una marmotta. Ma si è fatta, guardando, l'ora di tornare con l'ultimo chiaro. Bisogna affrontare la discesa lavorando di schiena e di mani nei punti più impervi. La fatica è compensata da una grande quiete, che è la forma assunta qualche volta dalla felicità. Alla grangia dabbasso incontriamo un margaro ispido. Sta sollevando il coperchio di una cassetta come fanno i marocchini per mostrare le loro cianfrusaglie. Ma dentro ci sono vipere, decine di vipere che si sforzano di far emergere dal viscido viluppo delle spire le testine attente. Afferra per la coda e ributta dentro quelle che, senza parere, scavalcano il bordo e scivolano sulla strada. Saranno sacrificate in un istituto sieroterapico? Qualcuna finirà acciambellata, per superstizione o spavalderia, sul fondo di una bottiglia di grappa? Mentre rinchiude con un colpo secco il coperchio della sua collezione, l'uomo ci interroga sull'arrampicata. Non sembra troppo contrariato o irritato dalle aquile. Anche se appena ieri gli hanno ammazzato due agnellini da latte. E' arrivato addosso alle bestiacce quando li avevano già svuotati delle interiora. A beneficio crudele dell'altro piccolo, che se ne sta chiotto, a irrobustirsi e prendere confidenza con il volo imminente. Buona fortuna, aquilotto. Lorenzo Mondo Un medico come guida Lo sforzo ripagato a quota 1600: ecco spuntare la testa di un rapace L'alta Valle di Susa, favorita dalla relativa vicinanza con il parco del Gran Paradiso e l'oasi «del Gran Bosco», è un regno delle aquile reali

Luoghi citati: Oulx, Susa