Le contraddizioni del giudice sceriffo

Le contraddizioni del giudice sceriffo LE CARTE DELL'INCHIESTA DI PALERMO Le contraddizioni del giudice sceriffo Un sospetto: voleva diventare un'autorità ombra PALERMO DAL NOSTRO INVIATO Quante sono le verità del giudice Lombardini? E quale di queste è autentica: quella consegnata ai pm di Palermo prima di suicidarsi, o una di quelle dispensate nelle varie memorie e interviste spuntate dopo la sua morte? Ora che il protagonista s'è tolto di mezzo con un colpo di pistola, l'inchiesta sui misteri del sequestro Melis diventa un viaggio tra le diverse versioni del magistrato. Che contrastano tra di loro, a conferma che l'indagine su Luigi Lombardini era fondata su elementi concreti da verificare e approfondire. Il procuratore Caselli lo disse nel primo pomeriggio di martedì, prima che si verificasse la tragedia: c'erano «elementi concreti, non teoremi», nell'inchiesta che coinvolgeva il suo collega; una risposta anticipata alle accuse e alle «ingiurie» sulla presunta persecuzione politica e giudiziaria. La memoria del computer e le sei scatole di documenti trovati nel suo ufficio sono al vaglio dei pm palermitani. Lì dentro ci sarebbero elementi utili alla ricostruzione del ruolo svolto da Lombardini nella vicenda Melis; forse una qualche conferma dell'incontro con il padre della rapita. Se così fosse si può immaginare che il giudice abbia deciso di uccidersi quando s'è reso conto che andando a guardare nel computer e tra le sue carte gli inquirenti avrebbero trovato la smentita alle sue dichiarazioni. Una cosa è certa: quello che Lombardini ha negato ai pm siciliani - l'appuntamento con Tito Melis, la richiesta di un altro miliardo per ottenere la liberazione di Silvia, perfino le minacce - l'aveva invece ammesso nell'intervista pubblicata postuma, ieri, dal Messaggero. «Melis mi contatta attraverso l'avvocato Garau - ha detto il giudice -...Ci siamo incontrati... Io dico all'ingegnere (Melis, ndr) "Mi sono messo d'accordo per due (miliardi, ndr)... Bisogna pagare perché questi mi danno una fucilata alla schiena, allora prima che la danno a me la faccio dare a voi..."». E', in buona sostanza, ciò che Melis aveva raccontato ai magistrati, e che Lombardini ha tentato di smentire fino all'ultimo. Ieri mattina, al secondo piano del palazzo di giustizia, il procuratore Caselli, l'aggiunto Aliquò e i sostituti Ingroia, Di Leo e Sava, si passavano di mano in mano il giornale di Roma chiedendosi perché mai il magistrato non avesse detto loro le stesse cose. Ora interrogheranno la giornalista che raccolse quelle dichiarazioni nove mesi fa, il 21 novembre 1997, all'indomani della liberazione di Silvia Melis. Anche nel memoriale pubblicato l'altro ieri dal Giornale, Lombardini mostrava di conoscere molti particolari, ma è nell'intervista che ci sono gli spunti più interessanti per i pm. Al Messaggero il magistrato confidò anche di sapere che, secondo il piano prestabilito, quando Silvia Melis fosse stata liberata «bisognava chiamare Grauso con la parola d'ordine "Torà, Torà, Torà"». Un particolare molto importante, alla luce di quanto ha rivelato Tito Melis agli inquirenti. Secondo l'ingegnere, nell'ormai famoso incontro notturno fra l'8 e il 9 ottobre, oltre a chiedergli un secondo miliardo e la lettera che serviva per «scongelare» il primo già consegnato all'avvocato Piras, Lornbardini gli disse anche che il legale doveva utilizzare quella stessa parola in codice, «Torà, Torà, Torà», per farsi riconoscere dai sequestratori che l'avrebbero contattato per il pagamento del riscatto. L'uso di quell'espressione, stando all'intervista, era dunque effettivamente noto al magistrato, il quale invece insisteva nel sostenere che quelle di Melis erano tutte falsità. La parola d'ordine com- Nella foto grande il funerale Sopra la compagna di Lombardini Marinella Cozza

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