Il muratore di Dio

Il muratore di Dio i solitari di bordo. Sui Monti Sibillini un frate ha ricostruito da solo un monastero dell'VIII secolo Il muratore di Dio SASCOLI PICENO I chiama gola dell'Infernaccio, e possiamo assicurare che il nome non è per nulla usurpato. Ma se vogliamo arrivare dall'eremita, di qui si deve passare. Siamo nel cuore dei Monti Sibillini, cioè nel cuore del cuore d'Italia, al centro dell'Appennino umbromarchigiano. Il monte della Sibilla, con la sua grotta popolata di leggende, evocante balli di fate, sabba demoniaci, imprese del Guerrin Meschino, ci guarda accigliato e scaglioso oltre la strada. E la strada, una carrareccia tutta gobbe, sprofondi improvvisi, buche gonfie di acqua, finisce subito. Bisogna lasciare l'auto e infilare il sentiero, che si inerpica fra pareti a strapiombo, accanto al letto del Tenna, si stringe fino a diventare una sottile fessura schiacciata fra due muraglie di calcare, che filtrano le luci di un cielo lontano. Gola dell'Infernaccio è in realtà un nome gentile, coniato nei tempi moderni, per definire questo ambiente da Gustavo Dorè, che prima del 1820 nessuno aveva mai potuto valicare. Gli antichi lo chiamavano il Golubro, da «gola lubrica», cioè scivolosa, non sorpassabile da piede umano, per le acque che 10 sommergevano tutto. Ancora oggi i montanari lo evitano accuratamente d'inverno, per 11 pericolo delle slavine, precipitanti dal ghiacciaio acquattato lassù. Le foto delle vittime, piantate sulla roccia, sono lì ad ammonirci. Per l'eremita, faremo anche la gola lubrica. Per fortuna i fratelli Carlini, che conducono il più antico albergo di Montemonaco - alta cucina di montagna - ci hanno dato una buona guida, che conosce i Sibillini anfratto per anfratto. E dalla gola usciamo su una grande faggeta, da risalire per un ripido pendìo, fino al costone là in alto, che sbuca su un imprevedibile pianoro. Ecco, appare l'eremita E lassù c'è l'eremita. Con la barba bianca, il viso affilato ricorda il Primo Levi degli ultimi anni - un lungo grembiule azzurro macchiato di calce, su un paio di jeans ancora più macchiati. «Non sono un eremita», ci avverte subito, tanto gentile quanto fermo. «E questo non è un eremo, ma un monastero». Dove vive, eremiticamente, un solo uomo, lui. E dove nemmeno il monastero ci sarebbe, se lui non lo avesse costruito con le sue mani, pietra per pietra, sulle rovine di una costruzione più che millenaria, in 27 anni di lavoro. Portico, chiesa, casa, foresteria, tutto. Prodigiosa riuscita, in un luogo così inaccessibile, vietato a ogni mezzo meccanico (solo da alcuni anni, attraverso una galleria scavata nella roccia per l'acquedotto e preclusa al pubblico, può passare per lui un triciclo a motore). L'eremita che non vuole essere definito un eremita, e di cui non riusciremo a scoprire l'età («Me la sono dimenticata») si chiama Armando Lavini, da mezzo secolo padre Pietro. E' un cappuccino marchigiano, amante della montagna, arrivato su questo sperone la prima volta a metà degli Anni 60, fisso qui dal '71. «Questo era un luogo importante, nei tempi antichi», ci dice, dopo averci fatto accomodare nel suo salotto, due lastroni di pietra appoggiati a un rudere di muro, quasi sull'orlo del precipizio. C'era un monastero benedettino illustre, ci spiega, dei potentissimi monaci farfensi, che nell'età feudale tenevano un esercito in Sabina e una flotta a Ostia. Qui avevano un rifugio inespugnabile, dedicato a San Leonardo, un soldato cristiano fuggito sui Sibillini durante la persecuzione di Decio, senza riuscire a evitare il martirio. Il monastero esisteva già nell'ottavo secolo, come dimostra una moneta dissepolta fra le rovine, con l'immagine di Carlo Magno incoronato da papa Leone. Un documento di quell'età, conosciuto da padre Pietro, ci parla anche di un borgocastello accanto alla chiesa, dove abitavano vari contadini dai nomi longobardi, tutti con le loro famiglie, sotto l'insegna dell'ora et labora. Sembra incredibile, oggi, guardando questi burroni: ma qui, per altro percorso, risalendo la montagna della Priora che ci fronteggia, passava la strada per Roma; la più breve, anche se non la più facile, fra le Marche e l'Umbria. Il luogo era frequentato, si fermavano pellegrini, mercanti; il monastero passò di mano in mano, conteso dai signori locali. Nella prima metà del sedicesimo secolo appartenne alla nuova famiglia dei camaldolesi, fondata da Paolo Giustiniani, che tennero qui un Capitolo generale, il 24 giugno 1525. Respinti dai lupi La data è importante, ricorda padre Pietro, perché in quella riunione fu deciso l'obbligo, per i monaci, di portare la barba, «vero indicio di umanità et interiore concordia, carità e pace». Erano presenti anche alcuni frati minori, che volevano tornare ai princìpi di San Francesco, in contrasto con i loro confratelli; e ne tennero conto. Quei frati sarebbero stati i primi cappuccini. La «venerabilis barba cappuccinorum», dice sorridendo il ricostruttore della chiesa, tornato qui 500 anni dopo i suoi padri, con la stessa barba, nasce proprio su questi sassi. Poi vennero anni più bui. I monaci se ne andarono, respinti dal freddo, dai lupi - che ancora oggi si aggirano in questi boschi - dagli orsi, dai briganti. Ma soprattutto, osserva padre Pietro, dall'eccessivo passaggio degli uomini, che non consentiva più il silenzio. Con le leggi del nuovo Stato italiano, che incamerava i beni ecclesiastici, il monastero ormai cadente fu ceduto a un proprietario di greggi - Matteo Rosi, 13 mila pecore - che cer¬ cava un edificio per farci il deposito del formaggio. «Era un buon cattolico - dice padre Pietro - aveva almeno salvato la chiesa per farci dire la Messa. Un vecchio montanaro mi ha raccontato che sua nonna veniva qui accompagnando il sacerdote col somarello. A tutti i partecipanti il Rosi dava "una pagnotta e una fojetta de vi". C'era da andare in estasi, per i montanari, a quella Messa: pane, vi, e del formaggio solo l'odore». Quando padre Pietro arrivò su la prima volta, il 2 febbraio 1965, erano finiti anche quei tempi. «Trovai un rudere, la chiesa era crollata, nel magazzino c'era un metro e mezzo di letame. Ma ero rimasto affascinato dal luogo, pensai alla ricostruzione. Mi sembrava di sentire la stessa voce che aveva parlato a Francesco in San Damiano: "Ripara la mia casa cadente"». Padre Pietro era allora impegnato alla Madonna dell'Ambro, un santuario della zona; ogni domenica pomeriggio, finiti i suoi impegni pastorali, veniva su, «con carta, penna e calamaro. Riprendevo tutti i particolari, guardavo come erano messe le pietre, sognavo la chiesa rifatta. Tornavo giù nella notte, alla luce della luna». Si informò al catasto, per sapere a chi appartenevano quei ruderi. Scoprì che l'antico monastero, registrato come «capanna rurale», era passato dal 1934 al senatore Luigi Albertini. L'ex direttore del Corriere della Sera cacciato dal fascismo aveva investito in terre il denaro della liquidazione e, dopo aver comperato la tenuta romana di Torre in pietra aveva pensato, lui marchigiano, a San Leonardo, il nome che aveva dato a suo figlio. Trent'anni dopo, quel bene non valeva più niente. Torre in pietra era stata espropriata, San Leonardo sembrava diventato un'appendice inutile. Non si entra in casa Albertini «Mi sono fatto accompagnare a Roma da un amico, ci siamo presentati a casa Albertini: due inservienti in uniforme ci hanno subito chiuso la porta in faccia». Ma mentre usciva dal palazzo, il cappuccino vide una signora elegante che attraversava la strada diretta a un'auto, e interpretò un'occhiata del portiere. Era Tania Tolstoj, la moglie di Leonardo Albertini. La intercettò, le spiegò il suo progetto. Pochi giorni dopo ricevette una lettera dal personaggio che portava il nome di San Leonardo. «Mi regalò la chiesa, era disposto a darmi anche dieci ettari di terra, che a me non interessavano. E aggiunse un assegno di 50 mila lire, per le prime spese». Furono i soli soldi che passarono per le mani del frate. Il 24 maggio 1971 partiva dal fondovalle, con una carriola, un piccone e una pala, per la sua avventura. «Avevo chiesto al mio superiore anche un pezzo di pane. Mi rispose che con la mia iniziativa il convento non doveva rimetterci. Il tozzo di pane me lo diedero poi in una casa di contadini, lungo la strada. Era duro, di quindici giorni. Ma non potevo aspettare che tirassero fuori quello fresco, ancora nel forno. Andai su così». Il sindaco di qui? Un somarello Mentre padre Pietro racconta, intorno si è formato un piccolo uditorio. Sono i gitanti dell'agosto, che vengono su sempre più numerosi, attratti da questa chiesa sorta in mezzo al cielo. E si siedono lì, tra le pietre, ad ascoltare la sua incredibile storia. «Il sentiero non era ancora quello di oggi, a un certo punto spariva. Dovetti spingere la carriola per il pendìo, fin quassù. E qui trovai il sindaco: era un somaro tranquillo, che rosicchiava un cardo rosso e turchino. Fece un raglio da non finire: la marcia trionfale per me». Il frate racconta il suo primo pasto, alla fontana sotto il poggio, ridotta a un abbeveratoio per il bestiame. «Mangiavo il pane, ogni tanto lo bagnavo nell'acqua, e mi venivano in mente le parole di San Francesco: "Io con le mie mani voglio lavorare. Non per cupidità di ricevere il prezzo della fatica. E quando non fosse dato a noi il prezzo della fatica, ricorriamo alla mensa del Signore". Anch'io in tutto questo tempo ho lavorato, senza pensare al prezzo della fatica. E da 27 anni mangio alla mensa del Signore. Ma è stato duro trovare sempre un pezzo di pane, ben annaffiato». Deve essere stato duro tutto, quassù. L'uomo con la barba bianca è andato a prendersi le pietre giù al fiume, trascinandosele per la salita; si è portato su il cemento, 25 chili alla volta; per far arrivare l'acqua da una sorgente gli ci sono voluti 18 quintali di tubi, quattro anni e mezzo per caricarseli tutti. «Qualcuno mi chiede che cosa succederebbe se io mi ammalassi. Rispondo con l'esempio di Fleming, che nella muffa ha trovato la penicillina. Con tutto il pane ammuffito che io ho mangiato in ventisette anni, sono immunizzato contro ogni malattia». L'uditorio è ancora aumentato, guardano stupefatti la costruzione, la confrontano con i ruderi intorno, dai quali il frate era partito. Ma come è riuscito, davvero, a compiere l'impresa? «Questa domanda non dovete rivolgerla a me. Dovete rivolgerla al Padreterno. Forse Qualcuno, in questo sperduto angolo dei Sibillini, aveva un progetto di salvezza. Un luogo di povertà e di fede. Altrimenti non si spiega come io, senza una lira, abbia potuto portare avanti il lavoro. Certo, questo progetto non collima troppo con i progetti degli uomini». Così poco, collima, che la sua iniziativa ha già suscitato dei nemici. L'Ente parco dei Monti Sibillini accusa il cappuccino di avere svolto i lavori senza un piano esecutivo e senza un regolare permesso, si minaccia addirittura un'ordinanza per la demolizione dell'opera. Sono già partite interpellanze parlamentari in sua difesa, sarebbe davvero orribile se il monastero venisse abbattuto: non solo per quanto è costato, ma per quanto oggi rappresenta, in questi luoghi fino a ieri perduti. Il regalo è il silenzio Padre Pietro si difende indirettamente. «Per quel che mi è stato possibile, ho cercato di ricostruire la chiesa servendomi delle stesse fondamenta, adoperando le stesse pietre, la stessa arena che ricavavo setacciando i calcinacci, attenendomi allo stesso stile». E usando il mestiere imparato in tanti anni di opere murarie nei conventi. «Un dottore di Milano mi inviava le sue lettere all'indirizzo "Padre Pietro, muratore di Dio". Oggi, dopo aver tanto lavorato alle sue dipendenze, credo di poter essere promosso capomastro». Nessun altro, se non questo muratore in saio, sarebbe venuto a lavorare quassù. «O Signore, ho cercato di costruire e regalarti un castello: ora tocca a te abitare il suo silenzio», ha scritto. E questo silenzio, che dobbiamo cercare oltre le gole del monte, è un regalo per tutti. Giorgio Calcagno Padre Pietro si trova oltre la Gola dell'Infernaccio. Non ricorda più la propria età. Si fermò su questo sperone nel 71 «Trovai un rudere la chiesa era crollata nel magazzino c'era un metro e mezzo di letame. Ma il luogo mi affascinò» F andato a prendersi le pietre giù al fiume, trascinandosele per la salita. Ha portato su il cemento, 25 chili alla volta Per far arrivare l'acqua da una sorgente gli ci sono voluti 18 quintali di tubi, quattro anni e mezzo per caricarseli tutti «Qualcuno aveva un progetto di salvezza: un luogo di povertà e di fede. Altrimenti, senza una lira, come avrei potuto portare avanti il lavoro?» Il muratore di Dio Padre Pietro (Armando Lavini) e a destra il monastero di Montemonaco così come è stato ricostruito dal frate