Dietro l'Islam, le Sorelle

Dietro l'Islam, le Sorelle Dietro l'Islam, le Sorelle Chi vince la guerra controlla loro nero ANALISI IL GRAN GIOCO DEL PETROLIO STA andando a finire, provvisoriamente, come tutte le cose di questo mondo, più o meno com'era nei calcoli di coloro che, da sempre, muovono le leve segrete della storia. Ci sono voluti quasi tre anni, un bel mucchio di morti, un gran fiume di denaro per fare sì che un altro fiume, di petrolio e di gas, potesse scorrere verso gli assetati motori d'Occidente. Naturalmente la storia è molto più complicata. Ma se, per esempio, non fosse finita l'Unione Sovietica; se sotto il Caspio - una volta mare quasi del tutto sovietico - non si fossero trovate sterminate riserve di petrolio e gas; se il Turkmenistan, finalmente uscito, con il plauso generale, dalla «prigione di popoli», non fosse divenuto feudo personale di Saparmurad Nijazov, e così via elencando, ben difficilmente un pugno di compagnie petrolifere avrebbe potuto armare un inedito esercito di «studenti di Dio». Fino a condurlo alla vittoria contro gli ex amici dell'Occidente, gli Hekmatiar, i Rabbani, i «leoni del Panshir» che erano riusciti a mettere in ginocchio gli «siluravi», i russi infedeli e comunisti amici di Najibullah, e prima ancora di Babrak Karmal, e prima ancora di Amin. I taleban hanno vinto, per ora, nel nome di Allah, contro altri musulmani che - a loro volta - avevano vinto nel nome di Allah. La differenza principale tra questi devoti è consistita essenzialmente nel fatto che quelli che cacciarono i sovietici non riuscirono poi a mettersi d'accordo tra di loro e continuarono a scannarsi. Senza accorgersi, nel frattempo, che al Nord tutto stava cambiando e gli zampilli di oro nero s'innalzavano in pennacchi sempre più alti sulle grigie acque del Caspio e sulle gialle steppe che vi si affacciano. Un Afghanistan dilaniato in permanenza non era funzionale a questa nuova situazione. Bisognava trovare il modo di unificarlo e renderlo stabile per un periodo di tempo sufficientemente lungo. Così la differenza tra i bigotti islamici l'hanno risolta i laici del petrolio. Che non sono neanche, a stretto rigore di termini, tutti di religione monoteista. Infatti tra loro è possibile annoverare la Unocal americana, la Delta Oil saudita, la Hyundai coreana e alcuni gruppi finanziari giapponesi. E poiché sono tutti più o meno lontani dal teatro delle operazioni, occorreva un agente locale bene attrezzato, sperimentato, capace di svolgere le funzioni di rappresentanza. Ce n'era uno solo disponibile, il Pakistan: fidato e direttamente interessato, anche perché quasi metà dei 1500 chilometri di gasdotto che porteranno 20 miliardi di metri cubi di gas dai confini turkmeni direttamente fuori dal Golfo Persico, nell'Oceano Indiano, tagliando fuori Russia ed Iran, passano attraverso le terre di Islamabad. Gli altri 743 chilometri passeranno per l'Afghanistan. E non si potevano gettare 2 miliardi di dollari di investimenti in mezzo a rocce che oscillavano sotto i mutevoli controlli di questo o quel signore della guerra. E poiché il tempo delle guerre coloniali è tramontato, e una spedizione militare diretta in Afghanistan la potevano realizzare solo i geronti semi-rimbambiti che ressero il declino sovietico, ecco gli «studenti di Dio» messi a disposizione da Islamabad. Un anno per cacciare da Kabul Rabbani, due anni per liquidare Ahmad Shah Massud. Giusto in tempo, forse, per essere finalmente riconosciuti dall'Onu come nuovi rappresentanti legali di Kabul. E se l'Onu non sarà d'accordo si potrà cominciare col riconoscimento da parte di Islamabad, Ashgabat, e magari di Seul, tanto per assaggiare. E' escluso quello di Mosca, che di tutta questa operazione è la vittima principale. Tagliata fuori, aggirata e raggirata in primo luogo dagli Stati Uniti, che con una mano l'aiutano (prestiti) e con l'altra continuano ad aprire nuove vie per i flussi di petrolio e gas dal nuo¬ vo Eldorado dell'Asia Centrale, tutti alternativi alla Russia, vuoi via Turchia e Georgia, vuoi - appunto - via Afghanistan. E le altre capitali ex sovietiche, Dushanbe, Tashkent, Alma Ata, vivono ora nell'angoscia di un contagio islamico che non saprebbero come dominare, aggrovigliato com'è da questioni nazionali che le striano e le lacerano in lungo e in largo. E anche per Washington non sarà una decisione facile. I taleban fanno un buon lavoro, inutile dirlo, nell'interesse della «diversificazione dell'approvvigionamento energetico dell'Occidente». Ma hanno qualche difetto: per esempio vivono in un altro secolo, anche se combattono niente male in questo. E poi, come si può, sènza fare a pugni con la logica e l'etica, scagliare l'anatema contro un fanatismo islamico e usarne un altro, con discreta disinvoltura, a proprio vantaggio? E' ben vero che non sarebbe la prima volta. Basti ricordare le armi date sottobanco al mostro Khomeini per pagare quelle che venivano inviate ai con tras che abbatterono i sandinisti. O quelle regalate a Saddam Hussein, allora amico, perché girasse i suoi cannoni contro Teheran. Qualche volta i vecchi beneficiati si rivoltano e diventano nemici giurati, ed è poi difficile liberarsene. Si può solo concludere che qualche volta funziona e qualche volta no. L'unica cosa che si vorrebbe chiedere è di fare a meno della retorica e chiamare le cose con il loro nome. Esteticamente non è bellissimo, ma ne guadagneremmo tutti in chiarezza e sapremmo perché la benzina costa in fondo così poco Giuliette Chiesa L'appoggio pachistano agli «studenti di Dio» potrà fruttare un oleodotto verso l'Oceano Indiano Un giovane Taleban con un fucile da assalto AK-47 e munizioni da artiglieria. Qui sopra il ministro della Difesa russo Igor Sergeyev

Persone citate: Ahmad Shah Massud, Igor Sergeyev, Khomeini, Najibullah, Rabbani, Saddam Hussein, Saparmurad Nijazov