NUVOLETTI il Novecento elegantet

NUVOLETTI il Novecento elegantet BORDO. Da D'Annunzio al duca di Windsor, un maestro racconta cent'anni di commedia dello stile NUVOLETTI il Novecento elegantet UVENEZIA N camicione a rettangolini gialli e blu su fondo crema è la cosa più spettacolare che ha indosso il conte Giovanni Nuvoletti Perdonimi. Mentre i calzoni sono di gabardine nocciola e i mocassini sono beige, sono cioè indumenti tranquilli, che scivolano via allo sguardo, il camicione è come un vessillo allegro, un'idea di giovinezza: il conte lo porta fuori dai calzoni «per concessione alla pigrizia, per nascondere le pinguedini, per vanità forse». Ineffabile, impagabile Nuvoletti. E' stato per decenni il nostro duca di Windsor, il nostro Maestro d'Eleganza e di Buon Vivere apparendo sugli schermi tv con uno di quei sorrisi amabili e signorili che si vedevano soltanto al cinema, sulle labbra ad esempio di un Adolphe Menjou. Aveva baffetti delicati, capelli con un'onda e la riga a sinistra. Chissà se si metteva la brillantina. Settimanali e quotidiani lo interpellavano spesso. Era insomma un amico di cui ci si poteva fidare, in quell'Italia tumultuosa del boom piena di gente che faceva i soldi e voleva fare bella figura. Il conte Nuvoletti era lì, affettuoso: dava consigli con ironia, raccontando aneddoti divertenti e facendo frequenti citazioni dall'adorato Manzoni, che ogni giorno rilegge ancor oggi aprendo a caso il suo romanzo. Non è cambiato, nel fisico. Ha 86 anni. La parola sì, è cambiata. E' ancora più quotidiana, semplice, ma con vortici improvvisi di dialetto mantovano e venature bizzarre sia di termini inconsueti, letterari, come «cachinno», sia di termini inventati di sana pianta eppure utili e godibili, come «vestimentale» o «divertimentario». E' la sirena di Mantova, ammette lui stesso, quella Mantova per cui non prova nostalgia perché non l'abbandona un secondo. Un dialogo continuo nella memoria e nella lingua fra lui e la città; anzi, uno scavare nella specialissima e sperimentata vocazione linguistica di quei luoghi che qualcuno ha chiamato «stralingua», cioè colata umorosa, miscuglio d'arcaico, di dialettale e d'inventato. «Faccio nobili sforzi per esprimermi in dialetto - conferma il conte -. Ho il diritto di tirar fuori parole dialettali: sono il mio passato, le mie radici, fa bene sapere da dove si viene. Io ho un corpaccio e un faccione da contadino, io sono terra, cibo, eloquio, sogno». Un gioco, un modo per essere sincero e nello stesso tempo per nascondersi, per prendere qualche distanza ironica. Parla nella penombra di uno dei numerosi salotti a Villa di Marocco, pochi minuti d'auto da Mestre. Una villa del Settecento che la moglie Clara Agnelli, sorella dell'Avvocato, ha avuto in regalo dal nonno quando sposò il principe austriaco Tassilo Furstenberg. Ci alloggiò Radetzki e i veneziani vi firmarono la loro resa nel 1848. Fuori c'è t3' to verde, un parco grande, e silenzio. Nuvoletti ha due occhi grigi e azzurri che a volte si dilatano per lo stupore o lo sdegno, a volte diventano umidi e un po' rossi. Nuvoletti si commuove a parlare di questo secolo, del tanto tempo che ha visto e che ora sente restringersi, delle avventure politiche in cui s'è gettata l'Italia. Impossibile per lui rievocare soltanto lo stile, l'eleganza del Novecento, perché lo stile fa tutt'uno con il tempo, con la polvere della storia, con le frenesie e le illusioni degli individui e della società. Vestirsi bene, comportarsi bene, mangiare bene, parlare bene, tutto gli appare ora come una «mascherata»: non in senso negativo, ma in senso squisitamente teatrale. Se c'è una parola che Nuvoletti usa spesso è «commedia», con rife-' rimento appunto al muoversi delle persone sulla scena sociale. E' la sua prima parola-chiave. Ma attenzione, c'è commedia e commedia. Per Nuvoletti, quella valida, gentile e poetica, è di ieri. Gli anni della sua infanzia, della sua giovinezza, degli studi di Legge a Bologna («Di quell'Università ricordo soprattutto un bidello, Mengoli») e di Scienze politiche al «Cesare Alfieri» di Firenze. Due lauree sì, contano, ma ha imparato di più «sugli sci e sui mari»: frequentando, osservando, conversando. E poi gli anni di Roma, ma soprattutto di Mantova, «la Mantova sottile, penetrante, non decadente ma decaduta senza essere romantica». Giovanni Nuvoletti tende a idealizzare quei tempi nonostante «l'offesa del fascismo»; ci costruisce sopra il sogno di un'Italia garbata, civile. E' l'Italia della provincia, delle cento capitali, dei mille patrimoni diversi di civiltà e cultura, l'Italia dei riti piccoli e straordinari. C'era ad esempio lo spettacolo rivelatore del passeggio: «Ho visto vecchi signori, che non erano mai stati a Londra, recitare il saluto per strada con infinite sfumature nel modo di togliersi il cappello. E quante volte ho ammirato il signor marchese, abituato a ricevere un inchino dal prossimo, affannarsi ad incoraggiare l'ebreuccio o il negoziante e accordare per primo un sorriso cordiale. E davanti a un professionista o a un insegnante, la gente cedeva il passo, faceva largo». Il miracolo era il riconoscimento e il rispetto reciproco, l'armonia, il sentimento di una comunità in cui ognuno aveva il suo posto e in cui «il popolo era anche un gran signore e il signore era anche un poveretto». E' umana e sana, l'Italia, è il Paese più umano e più sano al mondo. «Quando avremo perso anche questa caratteristica, non si potrà più parlare d'Italia. Così era la nostra vita, il nostro costume. La vita era addolcita con gesti e parole che ogni giorno sono volati via». Una commedia che si specchia nella nostra cucina gloriosa, con il suo scimbio continuo fra tavole povere e tavole ricche e la sua «genialità Caldissima e saporita». Nuvoletti è presidente dell'Accademia intemazionale della gastronomia e ha curato un volumone prezioso, l'Artusi del Duemila, Cucina d'oro (uscito l'anno scorso da Mondadori), dove ha raccolto le migliori ricette, tradizionali e no, dando anche istruzioni pratiche su come realizzarle: «Esse sono una bellezza da salvare, ogg: che si mangia sempre di meno e sempre meno bene». Nuvoletti ama «carnalmente» questo rapporto fra la tavola e la vita fuori, nelle vie e nelle case d'ogni ceto. E' un devoto del «bevr in vin», del brodo con il vino rosso, da gustarsi curiosamente «dando le spalle agli altri per il suo colore viola, che a qualcuno può dar fastidio», e dei risotti, dei tortelli di zucca, dello zabaione superdenso, con vecchio marsala, o leggero, con spumante: «Preferisco i piatti semplici che mi raccontano la mia storia, la fantasia della mia gente». Da tutto il suo narrare vien fuori quasi un'Italia «dentro dalla cerchia antica», come la Firenze d'una volta evocata nel Paradiso da Cacciaguida, l'avo di Dante: un'Italia semplice, sobria ma simpaticamente impudica, come Nuvoletti ha raccontato nei suoi due romanzi Un matrimonio mantovano e Un adulterio mantovano, che piacevano a Flaiano. Oggi la commedia è tutta diversa, lo spettacolo è divenuto show, con quel che di gratuito e di eccessivo significa spesso questa parola. Oggi domina il clamore, che è il secondo termine-chiave nell'estetica di Nuvoletti. Designa l'odierno troppo di tutto: il troppo colore, il troppo gusto di esibirsi e di sorprendere. Addio discrezione, leggerezza. E dire che lui stesso, Nuvoletti, ha avuto il suo periodo scapigliato, quasi dadaista, quando negli anni '46-50 disegnava giacche di broccato giallo e celeste o abbottonate fino al collo, alla Pandit Nehru, il leader dell'India, e ricavava camicie dagli avanzi dei grembiuli delle bambinaie. «Sono stato un apostolo del diritto maschile al colore - racconta -. Dopo tante seriosità vittoriane, venivano fuori da dittature funeralizie, che ci avevano ingrigito e annerito. La mia era una reazione, era voglia di libertà. Ma con giudizio. Oggi siamo oltre ogni limite, si viene valutati soltanto per i soldi che comunichiamo, secondo una lezione che ci viene dai cowboy». Guai a far colpo! Lord Brummel si vantava d'attraversare Bond Street senza essere notato. Ogni eleganza, conquistabile anche senza spender molto, è semplicità, naturalezza, la virtù che il Castiglione chiamava «sprezzatura». Il segreto vero della persona elegante è sempre quello, saper comporre convenzione e trasgressione, uri equilibrio in cui riusciva magnificamente un amico del conte Nuvoletti, il duca di Windsor, il dandy che lanciò il disegno «principe di Galles», le scarpe marroni (fino ad allora ritenute proletarie), la cravatta a tinte accese, il fazzoletto da taschino, il moderno doppiopetto, il cappello tipo Panama e altro ancora. Il duca rinfrescava, rendeva più vivace un guardaroba opaco, stantio. «Oggi siamo passati dal minuetto alla giostra a calci in culo, per dirla come va detta», esclama il conte. Quanto chiasso, quanto cattivo gusto. Come rimediare? «Guardando la tv e facendo il contrario di quello che vi si vede. Non mostrando griffes. Non facendo complimenti per ingraziarsi il prossimo». Che cosa l'offende di più? «Gli uomini in tanga, con le chiappe nude. E le donne dovrebbero portare il topless con una disinvoltura che fingono di avere, ma non hanno ancora. E poi i maschi, più vanitosi delle femmine, sono oggidì circonfusi da odori esplosivi. Io vengo da un mondo in cui tutti si profumavano e avevano un profumo che non c'è più, alla gaggia, dolce e selvaggia. Poi venne la lavanda, più asciutta, e subentrò la prevalenza dei profumi inglesi, di Floris e di altri». E tuttavia il mito dell'eleganza inglese è da sfatare perché «è fatta per loro, per un popolo longilineo, ossuto. Noi siamo più corpulenti, soprattutto abbiamo il più alto senso estetico al mondo. "Tu credi che le cravatte inglesi siano le migliori - mi disse un giorno lo stesso Edoardo di Windsor -. Ti sbagli, sono le italiane". Avevamo sarti che creavano capolavori permanenti, come Domenico Caraceni e Ciro Giuliano. Le attuali giacche di Annani? Gliele lascio. An- che le nostre scarpe sono più eleganti, perché più leggere e delicate». Il nemico mortale da combattere, per evitare il clamore del cattivo gusto, è in definitiva «l'ormai invadentissimo, prevaricatore io». Chi si sottolinea, precipita. Anche nel parlare. In che cosa consisteva infatti la tanto decantata arte della conversazione? «Nel ritmo rapidissimo, tutto botta e risposta, e nell'essere spiritosi senza mai dire io, pronome molto noioso. Oggi prevale il chiacchiericcio, il pettegolezzo». E qui interviene la moglie Clara, mentre gli porge un caffè: «Gli uomini dovrebbero imparare dalle donne, maestre nel compiacere la vanità maschile: gli danno la sensazione d'essere ascoltati con devozione e invece pensano ai fatti loro». «Del resto - continua Nuvoletti - deprimere le manifestazioni grossolane dell'io vuol dire darsi una disciplina interiore, dimenticarci un po' di noi stessi e riconoscere che anche gli altri hanno i nostri abissi di malinconia. Le buone maniere sono il lubrificante della macchina sociale. Ed è stato detto che l'educazione è ciò che ci resta quando abbiamo perso tutto, è tramite di elevazione morale. Lo stile nasce insomma dalia morale. La persona elegante non è una perla nell'ostrica, non si compiace di sé, del proprio buon gusto, che senza nulla su cui fondarsi pencola nel vuoto, è effimero narcisismo. L'ideale estetico fa invece tutt'uno con l'ideale morale, come fu per Lord Byron, che andò a morire per la libertà greca. I poeti... Ho conosciuto ed amato D'Annunzio, a Gardone. Mia madre s'era fatta una casa a Sirmione per vederlo e lui ogni volta stava con me mezz'ora: voleva piacere, parlava che era un incanto, con la sua vocina fessa, i denti malati, la disposizione aggraziata. Non credo che mi abbia influenzato: ho portato glande devozione alla sua persona, anche eroica, e grande ostilità alla sua estetica ridondante, ai suoi eccessi di vuotaggine retorica. Ma forse un po' mi ha segnato». Il conte Giovanni Nuvoletti sta scrivendo un libro per sé, per i nipoti e i pronipoti: «I bambini mi stupiscono e mi commuovono sempre di più, gli affetti alla mia età diventano necessari e quotidiani. Il terrore è di sparire. Prego frequentemente di non sopravvivere a nessuno: ò egoismo, ma non me ne vergogno. La morte è un angolo oscuro. Non vedrò più l'Italia, Sirmione, Roma. Prego per modestia, paura, viltà: il trascendente mi lascia indietro, non ce la faccio». Scrive sull'Italia, su questo suo secolo: «Non ero fascista, perché eravamo di famiglia liberale, ma molti fascisti erano in buona fede e vanno rispettati... Ho una tremenda nostalgia per l'Italia che ho sognato. Vorrei vederla, prima di sparire; ma mi accontento di averla amata. L'Italia è un grande spettacolo, così saporita anche nei suoi difetti. Mi sembra soltanto che potrebbe essere un po' meglio governata». Di nuovo il mito dell'armonia perduta, della commedia sociale ben recitata, con ognuno al suo posto, rispettoso degli altri. «Siamo così sbracati, così falsi! Lo stile è vivere con modestia e garbo anche civile, senza ipocrisia». «Troppi colori ed esibizionismo, l'armonia significa semplicità e naturalezza: bisogna comporre convenzione e trasgressione» «Guai a far colpo! Lord Brummel si vantava di attraversare Bond Street senza essere notato» BORDO. Da D'Annunzio al duca di Windsor, un maestro racconta c ma, ma soprattutto di Mantova, «la Mantova sottile, penetrante, non decadente ma decaduta senza essere romantica». Giovanni Nuvoletti tende a idealizzare quei tempi lItalia, è il Paese più umano e più sano al mondo. «Quando avremo perso anche questa caratteristica, non si potrà più parlare d'Italia. Così era la nostra vita, il nostro costume. La vita era addolcita con gesti e parole che ogni giorno sono volati via». Una commedia che si specchia nella nostra cucina gloriosa, con il suo scimbio continuo fra tavole povere e tavole ricche e la sua «genialità Caldissima e saporita». Nuvoletti è presidente dell'Accademia intemazionale della gastronomia e ha curato un volumone prezioso, l'Artusi del Duemila, Cucina d'oro (uscito l'anno scorso da Mondadori), dove ha raccolto le migliori ricette, tradizionali e no, dando anche istruzioni pratiche su come realizzarle: «Esse sono una bellezza da salvare, ogg: A sinistra, Piazza delle erbe a Mantova. Sopra, il duca di Windsor e Lord Brummel Clara Agnelli e il conte Giovanni Nuvoletti Perdomini A sinistra, Piazza delle erbe a Mantova. Sopra, il duca di Windsor e Lord Brummel