Il fallimento africano di Clinton di Igor Man

Il fallimento africano di Clinton Il fallimento africano di Clinton Un brutale richiamo dopo la missione nel Continente Non ci sono più santuari per gli americani, il terrorista arriva dovunque sventoli la bandiera a stelle e strisce. Simbolo di libertà e di progresso per chi, come noi-Europa, fu salvato dal nazismo sterminatore ad opera dei Gì; simbolo del Male per chi, bestemmiando l'isiàm, presume di combattere, contro il Grande Satana, una guerra santa. Che invece santa non è ma vile e velleitaria. Ciò detto dobbiamo domandarci perché gh Stati Uniti che appaiono lodevolmente impegnati a esportare un modulo di vita ancorato alla morale del benessere, al rispetto dell'uomo, suscitino anziché attenzione odio. Sistematicamente. Soprattutto là dove (vedi la Bosnia, vedi la Somalia) combattono contro la fame, contro la violenza del più forte, per l'affermazione del diritto internazionale. Gli Stati Uniti, spontaneamente e altresì a causa d'una troppo frequente latitanza dell'Europa (non ancora unita), si sono caricati di gravose responsabilità planetarie. E questo nella consapevolezza d'essere la Potenza-leader. L'unico e solo «gendarme» capace di proteggere il mondo. L'ultima «potenza strategica globale». Epperò un simile ruolo esige coerenza. Sempre, dovunque, comunque. Mentre è accaduto, accade, che gli Stati Uniti vengano, non di rado, colti in fallo proprio in fatto di coerenza. Si veda, per meglio capire, l'abortito tentativo del segretario di Stato, l'animosa signora Albright, di mobilitare i paesi arabi in una nuova spedizione contro Saddam Hussein. Nello stesso momento in cui (è accaduto appena all'inizio di questo, per molti versi terribile, 1938) la Signora segretario di Stato facendo leva soprattutto sul presidente egiziano Mubarak (alleato fedele quant'altri mai e regista dell'arruolamento arabo contro Saddam nella guerra del Golfo), illustrava ai governanti arabi amici i motivi e i vantaggi di «una giusta punizione» al dittatore mesopotamico, non riusciva ad aver ragione della «intransigenza suicida» di Bibi Netanyahu. E fu proprio Mubarak a spiegare alla Grande Sorella che ancorché Saddam non godesse, in patria e fuori, di nessuna simpatia né comprensione, sembrava profondamente ingiusto agli arabi che gli Stati Uniti esercitassero, in Medio Oriente, la cosiddetta politica dei due pesi, delle due misure. Gli attentati contro due ambasciate periferiche, in due paesi forse non proprio amici degli Stati Uniti ma certamente immuni della lebbra del terrorismo (apparentemente) islamista, sono dunque il prezzo della straordinaria visibilità dell'America ma anche delle sue contraddizioni. Di più: alle contraddizioni (abbiamo citato la più recente, la più grossa) va aggiunta una politica di sanzioni unilaterali contro questo o quel paese inscritto nell'oramai vetusto elenco di «paesi terroristi»: vedi la Libia, vedi l'Iran. Sanzioni rivelatesi, secondo la calzante definizione di Pierre Haski, «una inefficace macchina infernale». E questo perché codeste sanzioni punitive penalizzano popolazioni innocenti risultando, per converso, senza impatto politico. Le sanzioni al «macellaio di Baghdad» le pagano i 150 mila bambini iracheni che ogni amio muoiono per mancanza di medicinali e di corretta alimentazione. Le sanzioni (recentissime) al Pakistan reo di aver insanamente reagito alla «provocazione atomica» dell'India, le paga una popolazione stremata da un'economia in crisi dopo la fine degli aiuti americani ai muhiaidin che combattevano contro i russi invasori nell'Afghanistan. Per non parlare di una timidezza politica invero eccessiva nei riguardi del moderato Khatami, presidente d'un paese popolato in stragrande maggioranza di giovani, e che sensatamente vuole reinserirsi in quella che Walter Lipmann definì la «normalità intemazionale». L'integralismo islamico, padre funesto d'un terrorismo spietato anche perché ideologico, lo si combatte non solo con ì'intelli gence ma anche sa non soprattutto aiutando quegli uomini politici, quei movimenti d'opinione che in non pochi paesi subiscono la ferula dell'«islamismo radicale». Si dirà che le mosse distensive dell'Italia, media potenza regionale, verso l'Iran, verso la Lii bia, sono state rese possibili dal placet (ancorché tacito) di Washington, ma non basta: la monosuperpotenza può e deve rischiare in prima persona. E' mi vero e proprio salto di qualità, un modo più flessibile e, perché no, più audace di far politica quello che, oggi, si chiede agli Stati Uniti. La conversione all'isiàm di diversi capi di Stato dell'Africa in questi ultimi anni, l'attrazione esercitata sulle masse nere prima da Khomeini, ora dallo sceicco sudanese Al Tourabi, dal «veggente cieco» Omar Abdel Ra- hman, dal capo di Hamas, Ahmed Yassin, lasciano indovinare che doppiato il capo del Duemila, quando gli africani supereranno il miliardo d'anime, l'isiàm compirà un grande balzo in avanti. Come avvenne nel secolo XIX grazie a predicatori neri come il mitico El Hadj Omar. Il fatto è che mentre il Cristianesimo viene insistentemente etichettato come «religione colonialista», adottata dalle élites africane, e l'Ebraismo viene artatamente identificato con Israele, l'isiàm figura essere la religione emancipatrice del Terzo Mondo, l'unica in grado di offrire un sistema socio culturale adeguato alla vita comunitaria degli africani. Se l'isiàm è stato e potrebbe essere ancora forte leva di emancipazione, è del pari vero che nelle mani di falsi profeti e di spietati apprendisti stregoni (africani e non) può diventare strumento di egemonia, fonte di odio verso l'Altro. Accanto all'Africa miserabile che vede morire, di malattie, di fame, 40 milioni di persone (fra cui 18 milioni di bambini) l'anno, esiste un'Africa ricca: di acqua, di petrolio, di preziosi minerali, che fa gola a tanti. Non è escluso che nel suo viaggio Clinton abbia pestato grossi interessi, provocando risentimenti e preoccupazioni che abili personaggi han travasato nel Mar dei Sargassi dell'ideologia islamista radicale. E non importa se per colpire il Grande Satana si ammazzano innocenti in gran copia. Per quello che chiameremo il «nuovo terrorismo» conta colpire il Grande Satana. Fino a quando gli Stati Uniti non riusciranno a liberarsi di tanta odiosa (e ingiusta) etichetta, avremo sempre dei disperati, in Africa e altrove, pronti a schierarsi, se non altro idealmente, con gli assassini dei loro stessi figli. Sicché dopo quello eli Berlino rimane un nuovo muro da abbattere: quello del Buio e del Silenzio che separa l'Africa dal resto del mondo. Affinché possano dimenticarsi, finalmente, i terribili due versi del poeta congolese Martini Sinda: «0 Dio, perché hai creato / due manghi diversi: / un mango bianco/e un mango nero?». Igor Man Gli Stati Uniti pagano ancora una volta le contraddizioni della loro politica estera Un Islam radicale in agguato che promette emancipazione contro il Cristianesimo «colonialista»