INTI ILLIMANI da Pinochet al 2000

INTI ILLIMANI da Pinochet al 2000 Incontro con Horacio Salinas, leader del gruppo cileno che stasera chiude «Ethnos» a Portici INTI ILLIMANI da Pinochet al 2000 ■NAPOLI L tempo non ha fratture, viaggia avanti senza sgretolare il passato: nostalgia significa fermarsi, o almeno inciampare il passo, ma il futuro è non rinnegare». Riflette sulle parole Horacio Salinas, leader degli Inti Illimani, per spiegare un'evoluzione che i più affezionati e i più critici rischiano di non cogliere. Se un tempo il gruppo fu simbolo della resistenza cilena contro Pinochet, oggi, nel suo cammino musicale, porta il canto dell'orgoglio etnico non in quanto nazionalismo, bensì quale dignità che consente un dialogo alla pari, oltre le guerre civili e tribali, oltre le miserie, gli abbrutimenti e le incontrollabili migrazioni del Duemila. Non è dunque una «memoria» quella che Corrado Borghesi, l'impresario che ha chiamato Pindaro la sua agenzia, ha portato a «Ethnos», Festival Internazionale del Folclore e della Musica Etnica che si è aperto a fine luglio tra Ercolano e Torre del Greco e che si chiude questa sera a Portici proprio con gli Inti Illimani. Simboli musical-politici pian piano scordati e in Italia riscoperti con la televisiva ((Anima mia» di Baglioni. Dice Salinas: «L'Italia ha insegnato molto a noi esuli, siamo felici se ci capisce come cileni liberi». Partiamo dall'inizio. Nel '73, quando fu deposto Allende, eravate giovani in tournée in Italia. La vostra musica fu subito simbolo di resistenza. Fu un limite? «Fu giusto. Forse non fu nemmeno una scelta. Già allora facevamo musica etnica e Pinochet ci mise in quella condizione. Non rientrammo e il nostro canto divenne simbolico, importante per far sapere, per comunicare, per sollecitare reazioni». Ma non era tutta politica. «C'era una visione iniziale che in quel clima non fu colta, non fu capita fino in fondo, una parte artistica, una scelta di ricerche, che finì giustamente al servizio di una causa e ne fu divorata». Oggi c'è il rischio nostalgia, che vi ascoltino ripensando ai «bei tempi» della lotta o guardandovi come monumenti del passato. «Questo capita. Ma noi cerchiamo di non vederlo come rischio, il futuro si fonda sul passato, ognuno ha la propria storia. Se oggi il Cile non è più quello di Pinochet è anche grazie a chi ha colto la componente politica che la nostra musica etnica portava in giro. Con questo, però, rivendichiamo il diritto a non essere il museo di noi stessi, come alcuni cantanti cileni immutabili dagli Anni 50». Voi avete lavorato accanto a personalità diverse come Peter Gabriel o Bruce Springsteen. Ci sarà pur stata una contaminaziono. «La contaminazione c'è e sta nel guardare al mondo attuale. L'abbiamo subita soprattutto qui, in Italia, con influenze mediterranee forti, dalla musica nordafricana a quella greca». Contaminazione che è costata fatica? «Più che fatica, adeguamento. I caraibici, per sempio, sono molto più aperti di noi. Anche Neruda ha parlato del silenzio dei cileni. Sotto questo aspetto l'esilio è stato fruttuoso. L'Italia è un Paese che apre le menti». L'Italia apre le menti, ma anche i confini che vorrebbe chiudere e non osa. Voi cantori delle etnie come vedete questa migrazione inarrestabile? «E' dolorosa perché disperata, mentre poteva benissimo essere prevista, dal Nordafrica come dall'Est fin dal crollo del Muro. Il Muro si è soltanto spostato più a Sud. Esiste una diseguagbanza di vita esasperata, inaccettabile». E l'Italia si trova nel mezzo... «L'Italia si trova alla fontiera di due mondi e i suoi vicini le danno impegni superiori alle sue forze, la lasciano a vedersela da sola». I mondi che si confondono, al di là dei problemi sociali, favoriranno positive contaminazioni culturali? «Soltanto se sono forti le singole culture, se sopravvive un sano orgoglio etnico. Chi non ha quell'orgoglio si mette in posizione d'inferiorità, quindi anche di aggressività». L'orgoglio etnico semina stragi nel mondo. «Quello non è orgoglio etnico, è fanatismo. L'orgoglio è quello che fa parlare ;i testa alta, alla pari, e alla pari nasce il dialogo. Di questi tempi anche la riscoperta delle culture etniche è pericolosa, può diventare reazionaria e perfino razzista. Quindi anche il recupero va spiegato e capito». Avete cantato una rabbia politica, un popolo che vincerà contro un potere dittatoriale. Eravate un mito nei centri sociali degli Anni 70. Oggi alcuni centri sociali sono sospettati di far paitire bombe... «Le bombe, da qualunque parte vengano, anche da chi si ritiene in buona fede, sono un errore: una battaglia culturale deve tagliare i ponti a quella forma. Pinochet questo voleva: la violenza. Si muoveva bene su quel terreno, gli si doveva rispondere con la cultura e l'informazione. L'ordigno fa male a chi lo mette». Da Pinochet alle etnie del Duemila. Vi ascoltano i ventenni di trent'anni fa e i quindicenni di oggi. Perché questi giovanissimi? «Per due motivi. Qualcuno ci ha ascoltati da piccolo "per colpa" dei genitori. Altri sono attratti da una musica ancorata a una tradizione, ma sempre attenta a evolversi. Non abbiamo mai pianificato nulla, né lo facciamo ora. I giovani hanno ottime antenne: sentono che siamo artigianali e intuiscono che siamo onesti. Era musica onesta allora, divenuta simbolo non per calcolo ma per le vicende della vita, ed è musica onesta oggi». Marco Neirotti «Facevamo ricerca anche vent'anni fa: ma la nostra musica finì al servizio di una giusta causa e ne fu divorata» «Non siamo divenuti simbolo per un calcolo, ma a causa delle vicende della vita» Sopra e a destra tre immagini degli Inti Illimani in concerto e impegnati in uno sciopero della farne A sinistra Claudio Baglioni che l'anno scorso ha cantato «Venceremos» ad «Anima mia»