Schiele, la morte che vuol vivere di Marco Vallora

Schiele, la morte che vuol vivere La più straordinaria rassegna d'estate: il maestro espressionista nella sua Tulln, con oltre 300 opere Schiele, la morte che vuol vivere Tragico ribelle alla ricerca dell'eternità L~T\ TULLN (Vienna) 7 IMMAGINE accecante che apre questa formidabile mostra, che si candida I ad essere l'imperdibile dell'estate e l'imprescindibile su Schiele (La Stampa ne ha già dato notizia alla sua apertura e nella versione newyorkese, che però non vantava che l'esatta metà di queste opere, più di 300), è un'immagme primaria, archetipica, capitale come un'esecuzione: un vortice, un gorgo che porta alla perdizione. La Madre Morta, 1910, ma potremmo anche pensare La Madre Morte: un abbraccio estremo, fatale, che stritola ogni residuo di anatomia redimibile, un gesto che pare protettivo, avviluppando nelle spire del mantello placentare mi feto che risulta subito vecchio (gli occhi sgomenti, come prigioniero nel siderale oblò della sua dannazione) ma che invece affonda inesorabilmente nell'insondabile palude della presunzione prometeica di voler esistere a tutti i costi. E' in fondo la versione berghiana, alla Wozzeck, del celebre Lied sul Re degli Ontani, di memoria romantica, goethiana: il fanciullo che si stringe ad un Elfo che lo trascinerà nella corsa verso il nulla. Qui il Femminino riletto alla Weininger non redime, anzi, precipita nella cloaca della lacerante disperazione: «I miei errori - tracciava a grafite su un disegno - mi sporgono sopra gli abissi»: che era per lui quasi una liberazione. Firma emblematica quella mano colpevole che Schiele dispone sempre in primo piano, teatro della peccaminosità di esistere (forse del dipingere) come in un celebre racconto di Sherwood Anderson, quasi non riuscendo ad occultarla mai, in questo goffo balletto misteriosofico d'una segnaletica esoterica, che ha perduto la propria deglutita semiotica. E che ritorna anche in un celebre ritratto fotografico dell'artista, molto Wiener Werkstette, a firma di Trcka: le marni annodate in una tensione spasmodica. Sono sempre mani scheletriche, vene e cartilagini in rilievo, a disegnare un inestricabile traliccio di vana resistenza, scheggiate nell'alabastro livido dell'agonia. Terribili nella loro sconfitta invasivita. La stessa icona che ritroviamo anche in uno dei mille autoritratti, che una smaniosa nausea esistenziale lo costringeva a compulsare: quella mano già defunta, che pare recidere il filo della vita, parca delusa di sé. Ma sono tragiche marionette dal filo reciso pure le sue reiterate figure inchiodate al nudo, che paiono aver smarrito per sempre la chiave di ogni grammatica anatomica: avvinghiate come coleotteri, la testa piegata da un'artrosi cosmica, assalite da un'anoressia Finis Austriae che non lascia scampo. Paradossalmente, invece, la maschera funebre di Klimt non è distesa sul letto dell'agonia, è ritta, caparbia, svettante come per una seduta spiritica: è viva di morte. L'interesse di questa mostra che oltre al Minoritenkloster coinvolge anche il Museo della città natale dove il padre era capostazione, è che ci permette di assistere al salto imperscrutabile con cui il giovane ribelle diventa nnprowisamente l'Impuro Folle della pittura. All'inizio, il classico Zeitgeist dell'epoca, viottoli montani, acquitrini, mesti campanili, paesaggi spatolati alla svelta (e un'impressionante somiglianza con il Mondrian pre-astratto) poi, certo, uno sguardo vorace alla Secessione e a Klimt: ma è un baleno transitorio. Nel battere d'un giorno (l'anno più o meno il 1909) Schiele ha inventato la sua atroce modernità, che non ha più nemmeno bisogno del Moderno, come categoria baudeleriana dello spirito: è un gettarsi trafelato nei rovi della propria cattiveria espressiva, che non necessita più nem- meno di transitare attraverso le tappe d'obbligo dell'avanguardia di scuola, dell'Espressionismo. E che emozione vedere qui, nel Museo ricavato entro le celle del carcere in cui fu imprigionato per pochi giorni, accusato di immoralità e di molestie ai minori, il disegno su cui ha tracciato quella frase emblematica che Jean Clair scelse come exergue del suo saggio Critica della Modernità: «L'arte non può essere moderna, ma eterna». Che è lo stesso sgomento epocale dell'Ewig e del «mai più», affisso sul costato di una partitura mahleriana. E ancora, soffocato dal buio dalla prigione: «Non ho l'impressione di una punizione, ma di una purificazione». Spogliato dal Tempo, nudo, come sancisce mi altro acrobatico Autoritratto 1910, le gambe divaricate, l'anatomia frantumata che prende lentamente fuoco. E il castone incongruamente elegante della firma, ripetuta due tre volte come a riappropriarsi illusivamente della propria personalità (in quegli anni il filosofo Mach, studiato anche da Musil, andava convincendosi che l'Io fosse un recipiente vuoto entro cui gettiamo le nostre irrelate esperienze momentanee). Impressionante: l'anno prima è ancora mi fanciullo quasi caricaturale, il ciuffo buono, il solino da scolaro solerte. Poi deflagra qualcosa di imperscrutabile: in uno degli Autoritratti più impressionanti della storia della pittura (la rivoluzione è pari soltanto al ribaltamento della dodecafonia di Schoenberg) l'ectoplasma che nominiamo Schiele si presenta alla mucosa del quadro le orbite vuote, spaccate e scosta da sé un doppio, mia maschera in poltiglia, che ha perduto ogni disegno. Marco Vallora Egon Schiele Tulln (Vienna) Varie sedi Tutti i giorni, tranne lunedi dalle 9 alle 18 sino al 13 settembre. Egon Schiele

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