Piranesi, il cantiere della pazzia

Piranesi, il cantiere della pazzia A Gorizia, le visioni mostruose dell'architetto incisore settecentesco Piranesi, il cantiere della pazzia Un'acquaforte di Giovanni Battista Piranesi: «Il ponte levatoio (Le carceri)». E| GORIZIA / una suggestione troppo ovvia mettere in rapporto le mura compatte dell'an 1 tico castello e carcere dell'Imperiai Regio Governo austriaco con il nucleo centrale della mostra della Triennale Europea dell'Incisione costituito dal secondo stato del 1761 delle carceri di Piranesi. Significherebbe infatti interpretare troppo letteralmente un capolavoro dell'arte incisoria di tutti i tempi, supremamente fantastico e ambiguo, miscela terrificante e «sublime», in senso settecentesco, delle vere carceri e torture «capricciose» del Magnasco a inizio secolo, di scenografie «ad angolo» tardobarocche alla Bibiena e alla Juvarra e di aperture ispiratrici verso le visioni pittoriche di Hubert Robert che, sulla scia dei princìpi illuministici di discesa o caduta delle civiltà e degli imperi immaginò gli scheletri crollati dalle gallerie del Louvre. Per non parlare dell'idea, fin troppo romantica e decadentistica, fra il Poe de «Il pozzo e il pendolo» e il Grande Inquisitore di Dostoevskij, di un Piranesi che, ossessionato dalla mole cupa, minacciosa, incombente di Castel Sant'Angelo quale da lui incisa nelle Vedute di Roma, si aggira nelle sue viscere fra le carceri dell'Inquisizione e ne trae ispirazione. A partire dall'oppiomane Coleridge che confessava a De Quincey di ritenere queste acqueforti «vi- sioni nel delirio della febbre», in quanto «allo stesso modo si formavano, crescevano senza fine e si riproducevano da sole le architetture dei miei sogni», per due secoli si sono accumulate su quelle 16 tavole 56 x 42 le interpretazioni oniriche incubiche e analitiche, fino ai labirinti non senso di Escher e al manierismo surreale delle inscenature di Fabrizio Clerici. E certo, già ai suoi tempi il geometrico Vanvitelli lo chiamava il «Pazzo Piranesi». D'altra parte lo stesso architetto incisore avrebbe dichiarato: «Ho bisogno di produrre grandi idee e credo che se mi si ordinasse il progetto di un nuovo imiverso, sarei talmente matto da farlo». In questo, è un figlio prometeico e demiurgico del secolo dei Lumi e delle Rivoluzioni, giustamente Briganti lo annovera tra i protagonisti della rivoluzione psicologica. In realtà queste tavole sono un fantastico, sconvolgente monumento delle contraddizioni di un architetto sognatore, un cantiere dell'impossibile quanto un carcere mostruoso, in cui si arrampicano e sono tutt'uno strumenti di torture iperboliche e meccanismi per erigere una nuova e sfidante Torre di Babele. Un bel saggio in catalogo di Zigaina conclude: «Piranesi ha vissuto questa duplice tragedia: quella dell'architetto che si consuma riproducendo architetture non sue, e quella di un pittore visionario che in quattordici piccoli ramiprigioni dell'anima crea per insopportabilità di schemi, per rabbia, delirio o socnfinato amore di sé, microcosmi di opere future». Si consuma? 0 si vendica? Le tavole di vedute di Roma, cronologicamente mediane fra il primo stato delle Invenzioni caprìcci di carceri e il secondo delle Carceri d'invenzione (e il mutamento di titolo dà un uomo più cupo, più bronzeo) offrono nei cartigli una impeccabile, minuziosa filologia archeologica, storica, tecnologica («costruita in travertini a opera incerta», «costruito di mattoni e di tufi») ma presentano nella visione una deformazione drammatica (melodrammatica) protoromantica di violenze spaziali, di ombre e di luci. Le stesse con cui lassù in Inghilterra, Wright of Derby evoca di notte le prime manifatture della rivoluzione industriale. A ciascuno la sua rivoluzione. Nell'altra serie delle 27 Antichità romane, che conclude la rassegna piranesiana, il discorso e il concetto mutano ancora. Se da un lato la finalità didascalica spazia da Roma ad Ancona, dal Clitumno a Pola, da Pdmini a Verona e si colora di modalità topografiche arcaiche, ostentatamente derivate da stampe precedenti nella rappresentazione degli anfiteatri, dall'altro l'autore è ben figlio del secolo nel sottolmeare il «ruinoso» trionfo della natura e dell'erosione sulla storia. Ed è un surreale frutto di ironia il fatto che le lapidi dedicatorie al protettore monsignor Bottali, cappellano segreto di Benedetto XIV, siano circondate ed erose ai margini da una pullulante e vagamente mostruosa metamorfosi vegetale della tipica conchiglia «rocaille». Marco Rosei Piranesi e il suo tempo 1720-1778 Castello di Gorizia Fino al 30 agosto, da martedì a domenica. 9,30-13/15-19.30 Un figlio prometeico e demiurgico del secolo dei Lumi e delle Rivoluzioni Carceri come capricci, iperboliche torture, una nuova Torre di Babele